THIS MUST BE THE PLACE di Paolo Sorrentino

REGIA: Paolo Sorrentino
CAST: Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton
SCENEGGIATURA: Paolo Sorrentino
NAZIONALITA’: Italia, Francia, Irlanda
ANNO: 2011
USCITA: 14 otobre 2011

IT’S JUST OLD SONG, BABY: «PSYCHO KILLER QU’EST QUE C’EST FA FA FA FA FA FA FA FA FA FAR BETTER RUN RUN RUN RUN RUN RUN RUN RUN RUN AWAY »

Conseguenze del sentirsi e porsi, a tutti i costi, come autore. This must be the place conduce all’esasperazione il concetto di cinema secondo Paolo Sorrentino, lodevolmente testardo nel non modificare una virgola del suo atteggiamento dietro la macchina da presa anche quando si trova a muoverla in territori internazionali, altrettanto sfrontato, ma questa volta nell’accezione negativa del termine, quando si tratta di reiterarne i difetti storici, che vogliono immagini e personaggi da sempre collocati in una posizione privilegiata rispetto alle storie da raccontare. Quello di Sorrentino è sempre stato un cinema prevalentemente e orgogliosamente visivo, ritmicamente pacato e comunque esaltato da componenti narrative che, pur sott’acqua, contribuivano a farne uno story-teller borderline, compiendo spesso e volentieri il miracolo; L’uomo in più si nutriva proprio di questa particolare ma riuscita alchimia e parimenti hanno fatto Le conseguenze dell’amorecome L’amico di famiglia, prima che il romanzo de Il divo mettesse tutti o quasi d’accordo sulla a maiuscola da assegnare alla voceSorrentinoThis must be the place fa registrare un netto e clamoroso passo indietro, battuta praticamente a vuoto in quanto frutto di cliché autoriali stucchevoli e ormai prossimi all’auto celebrazione tout court. L’ultimo Sorrentino possiede gli identici difetti strutturali del recenteTarantino: non parla più al pubblico bensì a se stesso, crogiolandosi nella consueta fotografia di Bigazzi e nei suoi eterni tic (supermercati, trolley, squarci di provincia arresa, passioni musicali alternal chic e cantanti in pensione), risultando distante dall’occhio di chi guarda e, cosa ancora più grave, non emozionandolo affatto, perché telefonato e drammaticamente intuibile nella sua surrealtà d’inquadratura che tanto sa di lezione universitaria. All’erede temporale del neomelodico Antonio Pisapia viene assegnata la duplice personalità, prima anagrafica e poi artistica, di John Smith/Cheyenne, residuato dai tardi e dark anni ’80: un po’ Robert Smith un po’ Ozzy Osbourne, quasiBrian Molko nel momento in cui raccoglie l’acconciatura in onore di una grottesca cena casalinga; maschera in permanente corvina, look total black, cerone e rossetto iscrivibile di diritto nella nutrita galleria allestita dal regista partenopeo, in quanto personalità alienata, altezzosa, sgradevole e aforistica, diretta discendente di quella marginale aristocrazia di vita un po’ depressa e un po’ orgogliosa che tanto affascina Sorrentino (voci dietro un microfono, allenatori incompresi proprio perché rivoluzionari, contabili solitari, usurai di provincia e senatori a vita). Attorno a lui e alle sue toccanti freddure implode ben presto il castello di carta allestito dal cineasta, che perde la bussola tra i fantasmi di True Stories e l’ambizione di un personale Paris Texas, smarrendo l’orientamento dietro le apparizioni della musa David Byrnee l’inseguimento di un attempato criminale nazista per poi ritrovarsi, di fatto, con un pugno di mosche in mano, che inspiegabilmente si consolida nella citazione nebulosa di Wall Street: omaggiato a partire dal brano dei Talking Heads che dà il titolo al film e lusingato dal pretestuoso ingresso in scena di Shea Whigham, agghindato quasi fosse carnevale alla maniera di Gordon Gekko (anche quelli erano gli anni ’80, bellezza). Tutto il resto non è volume, ma ahi noi vuoto pneumatico, all’interno del quale gli interpreti entrano ed escono senza soluzione di continuità, a meno che non gli venga assegnato ciò che sanno fare meglio: come nel caso di Frances McDorman, alle prese con un personaggio che sembra catapultato in This must be the place direttamente in gita premio da un set dei fratelli Coen. Se al regista teatrale viene rimproverato di confondere le due arti in questione, altrettanto andrebbe fatto con Sorrentino: il cinema è una cosa, le mostre d’arte decisamente un altra, guai a sovrapporle confidando nel fatto che il gusto per l’immagine sopporti il peso dell’intero film. E per favore, che non si paragoni This must be the place a Edward mani di forbice. C’è un limite a tutto.

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