WALL STREET – IL DENARO NON DORME MAI di Oliver Stone

REGIA: Oliver Stone
SCENEGGIATURA: Allan Loeb, Stephen Schiff
CAST: Michael Douglas, Shia LaBeouf, Josh Brolin, Carey Mulligan, Frank Langella
ANNO: 2010

BENVENUTI, PREGO, ACCOMODATEVI, TRANQUILLI.

Una certezza su Oliver Stone è che in questi ultimi anni (almeno dalle sezioni più sofferte di Alexander in poi) abbia dimostrato un certo disamore per il Cinema: qualcosa più del solitamente detto tempo che passa/mancanza di smalto/perdita di grinta, una mancanza di fiducia nella propria forza (col suicidio di World Trade Center non c’è ancora certezza che si tratti o meno di un fantasma) o, questione di addendi, troppa bonarietà nella scelta dei materiali da plasmare.
Il fatto che W. sia una commedia essenziale ed esistenziale, e che giochi di pura maschera e di sordina (perché dei pesi che avrebbe potuto avere in realtà rimane l’omertà, un far-finta-che-non-esista generico e generalizzante, ma anche il rinnovarsi dell’affezione di chi l’aveva già – e ben solida) lasciando intravedere nuove sponde per Stone (poichè comunque è un aprioristico (rispetto alla firma) quasi-capolavoro, come lo è Postal di Uwe Boll), non trova seguito e successivo aumento salivare in Wall Street – Il denaro non dorme mai: il ritmo surclassato dai fatti, l’apologia diegetica persa nell’incastro dell’avvicendarsi furtivo (manualistico) dei capitoli della vicenda, l’amoralità rimaneggiata in equilibrio.

Un balzo verso un personaggio più che ventennale qui scotta più dell’Indiana Jones 4 di Spielberg, per ciò che è dato a uno e all’altro: il mito di Lucas può fare qualsiasi cosa (e qualsiasi ridicolezza gli verrà comunque ossequiata), va oltre la celluloide; Gordon Gekko è un ragno al centro di una ragnatela e non può permettersi di andare a dondolare in giro, sua incarnazione ed insieme patibolo sono le immagini del primo Wall Street, a cui non si può fare seguito (e non è questione di un “2” nel titolo) se non con le opportune edificazioni, mentre Il denaro non dorme mai è un labirinto prefabbricato per topi, cavie umane, drammi e svolte, che non riesce a scucirsi di dosso la scolasticità della sceneggiatura di una mano che non lascia impronte digitali.
Questo sembra essere Stone adesso: un regista di pellicole dalla grande accettabilità potenziale. Andare sul sicuro. Pararsi il culo. O fare tanto per fare. Darsi a qualcosa di consapevolmente inane.
Forse, addirittura, darsi le spalle allo specchio. Dando vita a una pura e semplice involuzione.

Il montaggio delirante e nitroglicerinico dalle immagini persiste, ma al posto della policromia d’un Robert Richardson c’è la compattezza di Rodrigo Prieto, ed il conseguente sfregarsi (talvolta, scoparsi) di split(multi)screen, iperboli assetate di velocità e piccole ma continue esplosioni vengono inghiottite dalla bocca glitterata della normalità: nella prima metà dei 90s era uno sbudellamento visivo, una guerra di immagini quella a cui Stone dava vita, mentre oggi, composizione digitale mon amour, è solamente un ballo aggraziato che suona scandaloso per charme, allineato, non più sorprendente, perso nella folla, così vedibile, guardabile, giudicabile da non avere peso.
Una sorta di (in)attività congiunta tra passato (che andava oltre) e presente (che sta dove deve stare, cioè un passo indietro) che non vale più l’allarme, se non pensando al rispolvero classico (forse istintivo, forse tattico) di forme arrese e devozione eccessiva (ma forse necessaria) ai meccanismi: non calcolando, un dato di pura sensazione è che in Il denaro non dorme mai ci siano almeno il doppio delle svolte narrative del primo film, nello scorrere fluido, dando come necessario lo spostarsi a Londra, l’esplicazione (o l’exploitation) delle gerarchie del potere, la maternità, l’epilogo da christmas movie; e l’effetto è l’ovvio, e il sudore fa in tempo ad asciugarsi, e la mancanza di un focus (appunto la ragnatela) e di un’ossessione figliano in impassibile assenza di raptus o passione; probabilmente un tentativo di emanciparsi o depurarsi dalle possibilità narrative della televisione, libera da certi running time, tentazione non ultima e non infima.
E ciò: Il denaro non dorme mai suona come l’equivalente professionale e professionistico dei film di Nancy Meyers, il suo halloween di dolcetti e scherzetti, il film più (anzi, la prima) commedia di Oliver Stone, la cui firma, con la sua dichiarazione di intenti, è il suo cameo d’arredatore effemminato.
Mancano la rabbia, la serietà, la voglia di esplodere sottoacido. Ma anche il fronte più impervio del (Suo) classico. E se non è lecito essere nostalgici (guardando e facendo film), è sempre bisogno primario non essere tranquilli.

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