VENEZIA 2011 – Giorno 8: kill (the) baby, kill

A Venezia a galleggiare, a gareggiare: come in trincea si contano le ore, con sottaciuta speranza che non arrivino più film ipotetici vincitori, con la voglia ritrovarci a dire «Che stupidi, il vincitore lo abbiamo sempre avuto davanti agli occhi, era evidente». Invece Muller s’è veramente fatto sadico, vuole finire grandeur: anche questo giorno ottavo c’ha costretto ad esaltarci. Hahithalfut (The exchange) di Eran Kolirin. Una partenza disumana quasi dumontiana perfetta per il nostro scomparso Davide Ticchi: una serie di pannelli d’una vita mediocre dove non accade nulla e – semicerti – non accadrà nulla. Personaggi che non guardano niente, che niente hanno in mano e altrettanto dentro – inequivocabile. Ed ecco che Kolirin ci frega, ci stringe all’angolo, e le sue immagini lucide e asettiche non ci permettono nè di cadere nè di fumare. Scena dopo scena: il comporsi di una vita cosiddetta “quadrata”, di sogni sopiti o perlomeno asintomatici. E, ad un certo punto, ecco che iil quadrato si dispiega, ortogonale, per mostrarci tutti i suoi sei lati, la sua originaria forma di croce: il protagonista torna a casa un giorno ad un orario diverso da solito, e questo sconvolge e stravolte tutto – l’amore, il lavoro, la vita (e sono pochi i casi come questo, in cui due righe di sinossi riportano a chi scrive la medesima sensazione di punto-di-non-ritorno della visione). l’umorismo nero e tenue, fitting life, macabro quanto fedele ai suoi arredamenti, ai suoi salotti, alla loro mediocre stabilità rotta dal di dentro e resa sifula.

Altre visioni vengon dopo, legate da un fil rouge: l’infanticidio (nella declinazione non meglio definita di “figlicidio”), che detto così è un brutale spoiler per almeno tre pellicole. Ma vien da ridere a pensare a Quando la notte di Cristina Comencini, che meriterebbe di andare a lavare i piatti in un ristorante poco frequentato, o a lavare le scale part-time. Ridere di semplici fatti: dirige da un libro da lei stessa scritto, e non abbiamo idea della sua prosa, che peggio della regia difficilmente potrebbe essere. «Ma com’è che quasi tutti i fiilm italiani mainstream non comici sembrano avere la stessa fotografia?» si diceva usciti, e la risposta, può darsi, una parafrasi da Boris: apri solo a sinistra e fai tutto di una sola tonalità. Senza contare il fatto che la copia fosse quasi inguardabile, una stampa da multiplex da centro commerciale, non certo da Venezia. Rimane che per questa sciatteria globale Claudia Pandolfi sembra bloccata su una prima e ultima spiaggia recitativa, e Filippo Timinella comprensibile situazione di fare più film possibile, come l’Accorsi di qualche anno fa. Questa Comencini - al contrario di Francesca - tratta il Cinema come se fosse il lavoretto per arrotondare qualche altro fantomatico stipendio, perchè la cosa che più fa male è sentir venire dalle immagini la convinzione registica che un’atmosfera ci sia, che un mood sia riuscito ad emergere. Desolazione.

Alla Comencini non basta farsi tutta da sè, non è sufficiente per lei avere lo stretto necessario selezionato: una donna sola, in un luogo semideserto, con un solo, buonissimo, uomo disposto a fare tutto per lei: si cade nel ridicolo, a causa delle stronzate che si sentodo dire dai protagonisti, e l’emozionalità è lontana. Il bello è che ci pensa un regista spagnolo esordiente con un film di fantascienza a darci qualcosasulla genitorialità, sull’omicidio, sulle persone – e tutto questo parlando di robot. Eva di Kike Maillo somoglia al Mr. Nobody di Jaco Van Dormael: ricorda almeno altri dieci film della stessa categoria (I figli degli uomini, A.I., Minority report, Gattaca, ma anche La cosa o Shining, o i temi musicali à la Elfman che da vent’anni si trovano ovunque scenda qualche fiocco) e li incastona assieme per fare qualcosa di nuovo all’interno del genere. Ed Eva è pulito, limpido, con gli effetti speciali al punto giusto, ricordandoci che non servono le navicelle volanti per fare della fantascienza, tantomeno i megacomplotti: qui si tratta di creare/gestire/accettare/distruggere la vita, nostra, dei figli, degli altri; amore e odio si equivalgono, e la neve (ch’è ovunque) assorbe tutti i rumori, incastra i personaggi in una tensione tanto ben narrata (annullato lo squilibrio potenziale tra pessimismi ed ottimismi) da non necessitare buonismo per essere messa in conclusione.

Perchè è questo il film che ci ha fatto non addormentare (la notte, non in sala) subito, mezzi illusi che potesse essere il caro Takashi ShimizuRabitto horaa 3D (Tormented) supera di spanne il precedente (con tanto di riferimento metacinematografico) Shock Labyrinth 3D - non che fosse difficile, non che i risultati siano altalenanti con la produttività a certi ritmi. Ottanta minuti di deliro onirico-visionario-conigliesco, con ribaltamenti di personalità, sangue sgoargante (ma non troppo) ad ogni occasione, identità mescolate ed un finale che aperto/non-pervenuto che altrove avrebbe convinto un ragazzo di quindici anni ad interessarsi di cinema. L’ottimo è che non si gioca di atmosfere nere (nel senso che non si vede un tubo) o grigiastre, con gli adolescenti che urlacchiano, e il 3D è finalmente un lurido ferro del mestiere in mano al regista e non un’assenza su cui battibeccare (forse anche perchè c’è Christopher Doyle alla fotografia, sverginato al 3D, ma di certo senza timidezza).

In Aronofsky we trust.

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