VENEZIA 2011 – Giorno 2: cinque bambole per la luna d’agosto / l’eyeliner per andare in guerra

*testo ad alto tasso di refusi*

«L’eyeliner per andare in guerra», e questo è quanto basta. Senza pistole, soldi od esoterismi: fattucchiere fulminanti, col corpo (nudo, vestitissimo) e con la voce e con gli occhi (che da soli basterebbero), compassate, imbroghesite, appena adolescenti, seppellite nel matrimonio, ma sempre – prima o poi – coi denti stretti fino a spaccarsene due o tre, con la rabbia nella pancia e nelle unghie.
Giornata femminile, di guerrigliere trasversali, rapitrici (o creatrici, riformatrici) di inquadrature.
Salotti, paralleli temporali, spiagge, tra l’Italia e la Francia: tutti luoghi per devastarsi e devastare la voglia ed il doveredi pensare, per ritrovarsi a mordersi, a piangere, a farsi spegnere le sigarette sul braccio, a chiedere «Amami.».
Questo è tutto, questo è ieri, la fine dell’estate: il coacervo di donne/ragazze wannabes che forse non saranno mai; già desideranti, già ghigliottinate.

Polanski fa vomitare un premio Oscar su un albo di Kokoschka, e questo è lo spoiler più grande possibile su CarnageJohn c. Reilly eChristoph Waltz partono subito come due persone di merda, Jodie Foster e Kate Winslet lo diventano: sono armature e ruoli (matrimoniali, umani, sociali) che cadono in pezzi, coccio dopo coccio, battuta per battuta, pezzo di pièce dopo pezzo di pièce. Se non si trattasse di un gioco divistico verso la follia e la nevrastenia, sommato al goder (quasi da far male, giungendo a paragoni diretti) di americani che pronunciano battute scritte e riadattate da francesi, poco resterebbe se non la presa claustrofobica (ma meno di sempre) di Polanski. La farsa antiborghese, ma per borghesi: il pacchetto è completo (e la cosa migliore è il suo non aver nè inizio nè fine, ma una cornice che vale più di tutto il narrato), ermetico, non sbrodola da nessuna parte, non abbiamo cleenex da tenere alla mano, non ci si può sporcare, tantomeno imbrattare, se non con torchianti primi piani di puerilità isterica di Jodie Foster e Kate winslet.

 

Madonna ha due palle grosse così, ma una non funziona tanto bene. Tanti svarioni negli sbalzi da un registro all’altro da far perdere qualsiasi fiducia.
W.E. ha lo script del romance perfetto, qualcosa che in mano a qualcun altro/a sarebbe diventato qualcosa di venerabile.
L’inizio è – letteralmente – «Delicato come un pugno in pancia ad una donna incinta»: sembra che trent’anni di showbiz (e, quindi, di immagini) siano sfociati in un delirio puro cinematografico-cinetico-cinefilo-est(r)e(mi)tizzante; sembra Wong Kar-Wai prima del coma, sembra la lezione di Marie Antoinette di Sofia coppola senza la tendenza all’appassimento (soprattutto quando partono i Sex Pistols), sembra che possa accadere qualsiasi cosa. Sembra.
Perchè è proprio quando la macchina da presa si placa ad l’indugiare sui volti paralleli e fantasmagorici (la loro prima sequenza rassomiglia quella di una doppia morte suicida, per permettere al film di far inseguire i loro spiriti e completare qualche cerchio) delle protagoniste che tutto crolla e Madonna ritorna/diventa un’incapace, con la vittoria del guardaroba e della fotografia sulle due attrici: il pallore proprio dei cadaveri le abbraccia, e loro sembrano sottili e di vetro, pronte a infrangersi con un soffio, incise di nero (nei capelli, intorno agli occhi, nei temi dei loro abiti) e interti come se gli avessero appena spezzato le ali, con la distanza di Abbie Cornish e Andrea Riseborough(impossibile siano inconsapevoli dei propri ruoli) viene abbandonata ad una non-decisione non-stilistica, ad uno spazio bianco.

Un été Blant. Monica Bellucci emblematica: nuda e morbida, ammiccante, imperfetta. E Louis Garrel ubriaco e con una macchina ad alta velocità, altrettanto universale. Ma per trattare l’universo devi essere dio (anche per solo il tempo delle riprese) e Philippe Garrel non lo è stato, non ha avuto la minima capacità di deflorare i clichè, quelli universali, (ci si permetta di dire:) francesi, tremendamente francesi. Amore tossico, impossibile ed insieme irrinunciabile, l’animo stracciato per amore e il mancato armistizio col corpo che preferisce andare a puttane, il cervello tossicodipendente da lei/lui. L’art pour l’art. La lotta di classe sorseggiando vino, in cascina. Aforismi e assolutismi piangendo seduti/e sul bordo di un marciapiede. Cinema dandy e bohemien e indie e hipster, autoreferenziale oltre l’accettabile e del tutto privo di un impianto che lo renda realmente indipendente, tutto questo per unico motivo: il film è girato di merda, e l’art brut è un’altra cosa.

Giochi d’estate (Summer games) di Rolando Colla è l’unico film italiano visto fin’ora (la malavita che controlla il racket delle proiezioni ha fatto sì che non potessimo vedere Ruggine di Daniele Gaglianone), è forse il migliore ed quasi bellissimo, il che non significa che sia qualcosa-più-di-bello. Bellissimo è categoria a sè, appunto perchè ha qualcosa che permette di usare il superlativo senza pudori.
Saranno quei ragazzini che recitano meglio degli adulti (che, viceversa, sembra abbiano le mutande sporche come ad una recita dell’asilo)
Saranno le scelte di regia che non si autosabotano in nome di chissà quale ritratto di povertà ma che invece l’abbracciano, la miseria (dei luoghi, dei protagonisti), per farne paradiso/inferno terreno e cinematografico.
Sarà che i giochi sadici e gli amori lenti dei protagonisti, sì incarnati da dei tweens, potrebbero essere di adolescenti, giovani adulti, gente di mezza età, pensionati (quell’universalità che Garrel… Lasciamo stare) e che quindi è tutto nella forza della regia che tutto ha significato.
Sarà che i protagonisti hanno già addosso tutto il fallire e tutto il brillare che si possa desiderare.
Sarà che tutte le mancanze e le carenze realizzative evidenti vengono a non significare n.u.l.l.a.
Sarà che l’estate non è solo del colorante chimico aggiunto, ma esaltata, integrata.
Sarà che il film finisce e nient’altro, come l’estate.

In Aronofsky we trust.

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