SHAME di Steve McQueen – Venezia 2011 Coppa Volpi

REGIA: Steve McQueen
SCENEGGIATURA: Steve McQueen, Abi Morgan
CAST: Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale, Nicole Beharie
NAZIONALITA’: USA
ANNO: 2011
USCITA: 13 gennaio 2012

VUOTI (EMOTIVI) A PERDERE

Cosa succede quando una persona vive nella sconnessione della propria esistenza esteriore da quello che alcuni definirebbero interiorità, altri anima, altri dimensione spirituale? Come risponde la psiche danneggiata da qualche oscura causa nascosta, negata, sottovalutata? Cosa succede quando ci si trova a confrontarsi col vuoto di senso che ci autocreiamo perché incapaci di darcelo da soli, un senso, o di accontentarci di questo?
Allora, subentra la dipendenza, quella cosa che si nutre dell’apostasi di esteriorità e interiorità dell’individuo, che la divora, e che finisce per far girare il suo ospite per la vita come un mezzo automa, e si rafforza quando sul volto di questa persona compare l’ombra del senso di colpa per qualcosa di indefinibile, di vergogna per qualcosa di innominabile. L’individuo diventa allora un parassita di esperienze esterne, indotte. 
Che la risposta a questo vuoto sia rinchiudersi in un isolamento dorato e laccato in un appartamento con vista su Manhattan, come Brandon, oppure aprirsi senza filtro e condizioni vampirizzando la vita altrui, come Sissy, poco cambia; in ambo i casi, il movente è un rifiuto della realtà contingente che esiste attorno agli individui, e che volenti o nolenti li tiene insieme, accompagnato dall’incapacità di venirci a patto, con questa realtà, con il presente che compone il quotidiano di chiunque, dal barbone che dorme sotto al portico di Torino allo sceicco saudita che fa strigliare cavalli e dollari come fossero la stessa cosa. 
Questo è il ritratto di Shame, il ritratto della solitudine e della dipendenza (e poco importa che nella trama del film questa dipendenza si consustanzi nell’erotomania di Brandon) di uno Steve McQueen che nel suo Hunger aveva fatto dell’autodistruzione del corpo un mezzo di lotta, una ricerca dell’unica via possibile di uscire fuori da se stesso di un prigioniero, di farsi politica, mentre con Shame parla con la voce di un protagonista per il quale il corpo ha smesso di essere qualcosa di cui avere rispetto e cura, qualcosa con un senso di essere diverso dalla soddisfazione del vuoto di idee, progetti, capacità di relazionarsi e quindi di vivere di Brandon e Sissy, due esseri senza un futuro e senza un presente, ma con solo un passato da cui non escono a veder la luce delle stelle.
Per chi ha speranza, domani è “un altro giorno”; per i due protagonisti di questo ritratto chirurgico della fenomenologia di vivere anestetizzato e urbano che non ha bisogno di arrivare agli estremi di Shame per costituire un problema, domani è “uguale a oggi, che era uguale a ieri”. L’eterno ritorno, della disperazione, della tragedia di un cinema che la vita la sfiora appena, senza poterla toccare davvero. Ed è qualcosa che nemmeno il 3D potrà cambiare.
 

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