(non più?) in sala

Il cinema di parola: JIMMY P. di Arnaud Desplechin

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REGIA: Arnaud Desplechin
SCENEGGIATURA: Arnaud Desplechin, Kent Jones, Julie Peyr
CAST: Benicio Del Toro, Mathieu Amalric, Gina McKee, Larry Pine, Joseph Cross
ANNO: 2013

Siamo a Browning, nel Montana del 1948. Jimmy Picard (Benicio Del Toro) è un nativo americano appartenente alla tribù dei Piedi Neri oltre che un reduce della Seconda guerra mondiale. Abita con la sorella, è piuttosto prossimo all’essere cieco e sordo e vive a stretto contatto col proprio disfacimento fisico. Il destino di Jimmy, la cui vicenda è tratta da un fatto realmente accaduto, è quello di venir sbattuto in manicomio. Nessuno riesce infatti a deliberare in maniera definita e definitiva su di lui. Jimmy P. è un relitto della Storia a tutti gli effetti, sottoposto a una dannazione preventiva della memoria, abbandonato alla solitudine di un corpo e di una sensorialità in disarmo. Un essere umano che la vita sta privando dei canali percettivi e che il resto del mondo non manca di emarginare, tenendosi a debita distanza dal tentativo di capirlo meglio. Jimmy è a un certo punto dichiarato sano ma psicolabile: una contraddizione sospesa che di fatto lo estromette da una diagnosi più profonda di natura prettamente razionale. Si decide allora di sondare il territorio dell’etologia e dei suoi derivati: viene chiamato un antropologo francese di nome Georges Devereux (Mathieu Amalric), specializzato nella cultura degli indiani d’America. Una vera e propria ultima spiaggia che darà luogo al consueto rapporto medico-paziente e a tutte le situazioni classiche che una relazione del genere è in grado di evocare.

In concorso al 66° Festival di Cannes, Jimmy P. di Arnaud Desplechin è un passo falso macroscopico che porta il regista a divari siderali dalle vette raggiunte con quel gioiello raro che era Racconto di Natale. Traendo ispirazione dal testo Psychothérapie d’un Indien des Plaines: Réalité et rêve, scritto dal medesimo Devereux nel 1951, Desplechin mette in scena un legame che per il film e la sua economia si tramuta ben presto – si potrebbe dire addirittura dall’inizio e ab ovo – in un legaccio. Jimmy P. esegue infatti pedissequamente tutte le possibili pratiche autolesioniste di un cinema di parola lesivo della dinamicità interna, nel quale il parlato ripetuto e insistito si rivela non propedeutico a centrare il cuore teorico e tematico di ciò che le immagini propongono. Esso è piuttosto un’esitazione protratta all’infinito, un alibi, un laccetto esornativo su un’opera che fluisce in modo nullo per due ore interminabili. Tant’è che l’antropologo stesso è scientificamente delegittimato ed adulterato, per lo meno nella trasposizione di Desplechin: il linguaggio non gli serve a scavare nella postura e nelle radici umane del comportamento di chi gli sta davanti e il suo interlocutore diventa così un paziente di tipologia più che altro psicanalitica.

L’antropologia e la sua nobiltà indagante dal carattere rigorosamente generale, insomma, degenerano in freudismo d’accatto e all’amatriciana, che viene riversato addosso allo spettatore in un tripudio di dissertazioni banalissime e ruoli codificati che vorrebbero solo sulla carta sovrapporsi, confondersi e ibridarsi l’uno con l’altro. Peccato però che tale meccanismo in Jimmy P. si ostina a non scattare: a trionfare è l’immobilità, non solo dei personaggi ma anche di una sceneggiatura e di una regia che non pungono, non mordono e non graffiano, ma che in compenso scorrono inerti con la pretesa del dramma da camera a due che sia anche contrapposizione di caratteri e sottile, sferzante gioco psichico. E’ una polarità che però difetta nel caricarsi dell’elettricità dovuta, che non trasforma la seduta in un rito implacabile e necessario per lo spettatore, dotato di climax e accensioni degne d’interesse. La crisi che Jimmy P. dovrebbe inscenare è dunque presunta piuttosto che vissuta attraverso il racconto cinematografico, logorata dalle diluizioni e da un approccio trasversalmente superficiale. Lo stile piano, in questo caso, non coincide con la pienezza dello stile, e il sobrio voto di castità è identificabile col vuoto tout-court.

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