CHE BELLA GIORNATA di Gennaro Nunziante

REGIA: Gennaro Nunziante
SCENEGGIATURA: Gennaro Nunziante, Luca Medici
CAST: Checco Zalone, Nabiha Akkari, Ivano Marescotti, Rocco Papaleo
ANNO: 2010

FENOMENO(LOGIA DEL) TERRONE

Tarde parole sull’ultimo Checco Zalone. “Ultimo” come fosse un habitué degli schermi, perché c’è un’innegabile patina che lo avvolge (tradotta in successo triturante immediato), come se il dicibile al riguardo fosse una ripetizione di qualcosa di già espresso (magari solo (ri)pensando a Cado dalle nubi), l’impressione d’avere il bis di un instant classic sormontante la capacità di giudizio, che perde in vitalità per farsi passiva spettatorialità, pura e popolaresca: potrebbe non fregarcene un cazzo, e pensare/dire «Che bella giornata è bello perché fa ridere, anche se non quanto Cado dalle nubi», abbandonandoci alla soggettività; e qui potremmo finire, stop, senza farci chimici alimentari parlando del cioccolato, aspettando il prossimo film da vivisezionare. Ma c’è un amore che non muore mai, più lontano degli dèi, che ci dice di dire, di cifrarci e di cifrarlo, per amarlo un poco di più, di assaporarne il Cinema che c’è dentro. E, prima dell’inevitabile confronto di corsa tra Italia ed Italia, una sola è la certezza: i primi due film su Checco Zalone sono una delle cose cinematografiche più lontane dall’affosso odierno (… da almeno 30 anni) nostrano, come se quella merda in cui molti si ritrovano ad avvolgersi appartenga ad un’altra dimensione.

La chiave è quella del naif, che spesso è strumento, talvolta causa di risvolti negativi, mentre qui è essenza totale, cifra di regista ed interprete (nonché musicante); un motivetto fischiettabile facile ed unico allo stesso tempo. Gennaro Nunziante e Luca Medici (il vero nome di Checco Zalone) hanno una morbidezza altrimenti invisibile. I momenti che creano sono il perfetto impasto di una regia che ruota attorno al suo attore, senza alcun percorso specifico, e il plot è il recipiente in cui tutto questo avviene, col solo dovere di contenere. Un trionfo della forma sul contenuto, dello slapstick sulla pochade. Senza il suo interprete/autore il film sarebbe morto, inimmaginabile: basta questa insostituibilità a giustificarne la forza (come di un Chaplin senza Chaplin), quando inveceAldo Giovanni e Giacomo hanno sempre sembrato star facendo di tutto per apparire come “di troppo” nei loro stessi film. Sorta d’illusione, ciò che avviene sembra creatura e non creazione. Inquadrature e tempistiche semplici (≠ facili), tendenza alla chiarezza, travestita da sciatteria (che invece è degli schifosissimi poster e locandine).Quel che si dice dei registi (semi)esordienti, che si espongono o troppo o troppo poco, che non hanno deciso ancora dove collocarsi, non vale per Gennaro Nunziante (che negli ultimi dieci anni ha dato sceneggiature lager than life rispetto ai tinelli e alle crisi d’età solite): lui sa perfettamente dove stare, cioè subito alle spalle dell’incanto (che dell’inondazioni di luce di Duomo e campagna non può fare a meno) del suo performer, mai stringendo o liberando in eccesso.

Checco Zalone è viziaccio ambulante, ignoranza angelica (non buonista come il cerebroleso di Zemeckis), summa dell’essere storiditi, errore senza intenzione (quindi non più tale), fanciullezza immobile, capace, panoramicamente, di annullare la furbizia mandrilla che oggi giace in Christian De Sica (post Totò, postAlberto Sordi), di rianimare quel che Carlo Verdone non è mai riuscito a trasmettere del tutto causa fisicità, di mettersi incarnazione (aggiornata) del discorso pro-rusticità di Castellano & Pipolo. E si potrebbe continuare, relazionando col passato (che del Cinema, in Italia, è sempre troppo passato per avere il diritto di stare col fiato sul collo) ed i suoi strascichi attuali: semplicemente, Checco Zalone, maschera ambulante, che appare insieme neonata e mai nata, senza maturazione o svolta. Idiota non sapiente, stereotipo assurto ad icona. Checco Zalone è la vittoria dell’uomo sul tempo: lui è tonto e stordito e rimane tonto e stordito, assente in visione distorta ma non ingenua. È Pierino. L’amore che c’è ma non si mostra compiuto, è desiderio felice e mai disperato (pur togliendoti il sonno): in una delle ultime scene, quello che avrebbe potuto essere coronamento romantico si fa conferma dell’incapacità di crescere, come un bambino alla soglia dell’adolescenza, regalatoci lì fermo a girovagare tra i dieci e i dodici anni. Il Borat, migliore di Borat, perpetuo di Luca Medici. Non sarà mai eroe o di formazione, sarà d’invidiabile noncuranza.

Ed intanto, mimetizzate in questo candore: spine sociali che riescono a far sanguinare, deridendo e sputtanando, senza il peso d’esser “critica” o “satira” schierate in quanto tali, senza il senso d’eroismo con cui sia dramma che commedia italiani si finanziano (anche moralmente), riversando invece nel dovere comico – che, una volta imboccato, non può non essere che supremo – qualsiasi materiale che diventa puntuale battuta cristallina, quella che chiunque potrebbe dire, popolaresca diventata condivisibile perché diventata cinematografica e, proprio per questo, Libera.
Non c’è alcuna scena di strazio camuffato di “moglie e marito che litigano”, di “genitori contro figli”, di “torbida passione negata”, pozzi secchi da cui c’è sempre qualcuno (Sergio Castellitto tra gli ultimi) convinto di poter attingere: la sofferenza viene completamente esclusa, la trama sottile e portante sta in virtù della comicità, come su di un’unica guglia nel nulla azzurro, cielo (il naif) e marmo (che lo renda visibile); una grandezza oggi dimenticata o poco vista (in Italia): ridere per ridere, senza peli sulla lingua, senza pali nel culo, del “tutto” come se fosse “qualunque” (e non viceversa, come in televisione), tingendo senza affogare nella realtà (come invece cinema incapace).

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