L’ ULTIMO DOMINATORE DELL’ARIA di M. Night Shyamalan

REGIA: M. Night Shyamalan
SCENEGGIATURA: M. Night Shyamalan
CAST: Dev Patel, Noah Ringer, Nicola Peltz
ANNO: 2010

ESSERE UMANI IN 3D 

I quattro elementi e la magia elementale, i popoli e le etnie dell’Asia, i due pesci Yin e Yang, templi buddhisti e monaci tibetani, meditazioni e visioni, insegnamenti zen e taoisti, taijiquan e arti marziali, storie di invasioni e grandi dinastie, spiriti, tradizioni e pergamene. Un gran bel minestrone (in salsa agrodolce), un bignami di cultura orientale for dummies: ecco cosa non è l’ultimo film diM. Night Shyamalan.
Sebbene il materiale di partenza sia quello – la serie animata da cui il film è tratto è un curioso prodotto americano che sembra essere di sincera fascinazione per un mondo così lontano (non solo planimetricamente), ma che tradisce continuamente, non solo nello stile, il narcisismo egocentrico caratteristico della propria tradizione culturale – Shyamalan di fatto relega tutto sullo sfondo, per lasciare in primo piano ciò che da sempre gli interessa di più: l’uomo. L’essere umano con ogni probabilità è l’unico vero elemento in 3d, all’interno di un film in cui il protagonista è un eroe che deve mettere pace ad un conflitto globale ma che, lo dice espressamente, non vuole fare del male a niente e nessuno. L’avatar è il più potente degli umani ma è di natura non violento, è una sorta di incarnazione dell’equilibrio e dell’armonia su cui si regge il mondo degli uomini, e in quanto tale il personaggio di Aang è assolutamente centrale nella poetica di Shyamalan, che l’ha fatto suo calandolo – rispetto all’originale – nel contesto della crisi del soggetto caratteristica dei protagonisti di tutti i suoi film.
Rispetto al ragazzo sicuro di sé  e spavaldo del cartone animato, l’Aang di Shyamalan è un personaggio infinitamente più tormentato, deve accettare la propria identità e il proprio ruolo nel mondo prima che gli eventi possano prendere la giusta piega; esita ad affermare di essere l’avatar per paura del peso delle responsabilità, e non è un caso che i momenti chiave dal punto di vista della messa in scena si snodino attorno a questo processo di autoaffermazione, come peraltro avveniva, in particolare, anche per il personaggio di Cleveland in Lady in the water. Anzi, in questo senso, la scelta di una trilogia che parte dal Libro dell’Acqua (difficile prevedere la realizzazione dei successivi capitoli, ancora più difficile che possa essere sempre Shyamalan a dirigerli) consente all’autore anche di insistere ulteriormente sulla grande intuizione teorica sintetizzata da Bauman nella metafora di Modernità liquida.
Il film rompe il ghiaccio, nella maniera più letterale possibile, proprio con l’ingresso in scena del (probabile) avatar, e vive i suoi due momenti filmicamente più felici proprio quando, primo, Aang annuncia di essere l’avatar, e, secondo, accetta davvero dentro di sé questo ruolo.
Il long take della ribellione dei dominatori della terra nel campo di concentramento, primo di quei due momenti, è una vera perla di tecnica cinematografica – delizia tanto per l’appassionato esigente quanto per lo sgranocchiatore selvaggio alla legittima ricerca di cento minuti di buio mentale – assolutamente (ed è questo che conta) a servizio del discorso del film. L’avatar si annuncia al rassegnato popolo della terra per scuotere gli animi e la situazione, e il film non può che scuotersi da par suo, con l’introduzione di una tipologia di soluzione linguistica che ricorda (ma sì, esageriamo!) l’impatto rivoluzionario di Welles Renoir; la macchina da presa si destreggia tra le fiammate, le zolle volanti e le folate di Aang con la stessa armonia di quelle “armi” naturali, lo sguardo sembra un ulteriore elemento a sé stante e Shyamalan il suo dominatore.
Il momento chiave (il secondo dei due di cui sopra) risolutore, tipico anche questo dell’intera filmografia di Shyamalan, si avvicina, ancora una volta, più in particolare a Lady in the water. Aang, come Cleveland, per compiere la sua missione deve far sì che tutti si fidino di lui, perché la sua missione è sì di fermare la guerra, ma più approfonditamente è quella di ritrasmettere agli uomini la capacità di vivere gli uni con gli altri, di interagire e di comunicare, capacità che hanno perso gli uomini del mondo di Aang come quelli del nostro mondo in E venne il giorno, e anche come gli inquilini del condominio di Lady in the water. Come Cleveland si liberava del segreto che gli precludeva la fiducia dei condomini, e come Elliott e Alma abbandonavano la mediazione per tornare a trasmettersi amore faccia a faccia, anche Aang deve buttare giù le barriere, far scorrere le emozioni dentro di sé per esprimere a tutti la propria potenza, la propria essenza, trasmettere il proprio messaggio di fiducia e speranza perché si torni a vivere gli uni con gli altri con umanità.
Aang, trasmigrazione dell’eletto Neo ancora alle prese con «le enormi macchine di metallo», è dunque l’ennesimo catalizzatore di umanismo del cinema di Shyamalan. In fondo viene detto chiaramente qual è il suo potere: «Potrebbe cambiare i cuori; è proprio nei cuori che si vincono tutte le guerre».
Era inevitabile che un autore come il filadelfiano giungesse prima o poi al fantasy vero e proprio e, dopo aver rifiutato la direzione di due capitoli di Harry Potter (ovvero due certezze al box office, che ne avrebbero dunque rilanciato le azioni), ha scelto di affrontare il genere partendo per la prima volta da un soggetto non suo (e forse a questo si deve la prima voce narrante off del suo cinema), ma che potesse rendere assolutamente suo tramite la scrittura filmica (sulla scia della lezione dei grandi maestri, da Hitchcock aTruffaut) e che gli permettesse di portare avanti la sua poetica umanista e le sue idee sul cinema e sul mondo, anche partendo da un materiale vicino a quelli con cui lavora abitualmente ma osservato da un’ottica del tutto trasversale. O non sarebbe l’ultimo dominatore dello sguardo.

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