LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI di Saverio Costanzo

REGIA: Saverio Costanzo
SCENEGGIATURA: Saverio Costanzo, Paolo Giordano
CAST: Alba Rohrwacher, Luca Marinelli, Arianna Nastro
ANNO: 2010

VENEZIA 2010: IL SILENZIO CHE SI FA EVOCAZIONE, IN UN THRILLER CHE PERO’ E’ UN FILM D’AMORE

La solitudine dei numeri primi è un film bellissimo. Erano anni che non vedevamo nel Cinema italiano una pellicola così attenta alle immagini, così espressiva nel farsi immediatamente sussurro di un’evocazione, esplosione di un’estetica, stritolamento del cuore, dei nervi cinefili. Come se Ozpetek fosse diventato eterosessuale e abbia perso la sua ironia per farsi tunnel nero, con squarci del migliorGarrone (tutti tranne Gomorra) e di reminiscenze retrò.

Opera ricca e frastagliata, il film di Costanzo avvolge fin dall’incipit, con quel meraviglioso piano-sequenza da horror anni ‘70/’80 e l’immediato perdersi nell’onirico, in una dimensione liquefatta dove l’innocenza è uno sguardo al buio, senza direzione e per questo condannato. Ci sono i Goblin di Dario Argento sullo sfondo, per seppellirci senza respiro nei giochi di specchi e di riflessi, perché in questo teatro tutto è già perduto, irrecuperabile. Costanzo traspone l’opera di Paolo Giordano girandolo come un thriller o un horror psicologico, come se ci fosse sempre un mostro o un killer dietro l’angolo, come se aleggiasse il paranormale, la malattia, la pazzia. E invece, riflessa dall’altra parte, c’è solo il mondo nella sua crudezza, il suo intrecciarsi di perdenti, di destini fatali. Per questo La solitudine dei numeri primi è un’opera importante: perché diversamente dagl’altri film italiani che hanno affrontato lo stesso argomento, Costanzo ha saputo discostarsi dalle banalità di un delirio famigliare. Non ci sono madri galline interpretate da Margherita Buy che urlano mezzo film, né tantomeno i padri sfigati di Silvio Orlando o i finti ribelli ex giovani Muccino. Qui, anzi, ci sono pochi dialoghi, i personaggi sono sobri perché soffrono dentro: quello di Costanzo è un Cinema che costruisce il proprio virus dall’interno, soffocandolo in un dolore vuoto (e fortissimo), perso, senza speranza. Ci s’incrocia senza toccarsi, si comunica con gli sguardi che diventano attimi e poi momenti e infine pathos. Il regista, appunto, fa del Cinema, e a stare al centro è l’immagine, la composizione dei quadri, la grammatica filmica. La macchina da presa diventa un pennello con cui dipingere natura morta, in un silenzio tombale che vale più di qualsiasi parola, di qualsiasi frase. Si viaggia avanti e indietro nel tempo, in un’intersecarsi perfetto per delineare il climax, la risoluzione che è poi il vero inizio della spirale decadente.

Non basta lo xanax: La solitudine dei numeri primi t’inietta nel suo mood, che è quella di una canzone depressa con un lungo outro che per qualche secondo sembra Cameron Crowe (i sorrisi, finalmente, / la luce abbagliante / forse l’amore / la felicità / la musica che avvolge e sconvolge, che si fa suggestione / meraviglia) per poi diventare un Kim Ki-duk. Persone non più personaggi senza colore e profili, anime trasparenti che s’abbracciano e si completano diventando un tutt’uno di lacrima e cuore.

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