MASTERS OF HORROR: THE SCREWFLY SOLUTION

REGIA: Joe Dante
SCENEGGIATURA: Sam Hamm
CAST: Kerry Norton, Linda Darlow, Jason Priestley
ANNO: 2006


A cura di Pierre Hombrebueno

TORINO 06’: APPUNTI MENTALI SU THE SCREWFLY SOLUTION DI JOE DANTE

Violenze su donne. Stupri, aggressioni, massacri. Mai più di ora giunge con temperanza il nuovo lavoro di Joe Dante, che assume automaticamente una valenza meta-realistica, denuncia di un’attualità filtrata nuovamente sotto l’occhio del 900’ (ormai 2000): il Cinema, in particolare, i Masters of Horror. Dunque, la realtà che necessariamente, dev’essere evidenziata sotto l’occhio dell’orrore (perché la realtà E’ orrore e orrore E’ la realtà), rendendola fictionaria, magari pure grottesca e comica, ma irrimediabilmente iniettiva e bombardante, come uno scherzo dove si ride ma che in fondo scherzo non è, in quanto tangente all’esistenza ad occhi aperti.
E se The Screwfly solution non è il più bell’episodio dei Masters of Horror Torinesi di quest’anno (e per il sottoscritto lo è), di sicuro è almeno quello più apocalittico e trascendentale. Semplicemente, Joe Dante filma (e firma) la fine del mondo, usando e riflettendo lo specchio contorto di uno dei maggiori problemi della società contemporanea, ovvero la violenza sulle donne, a cominciare dal riferimento iniziale, quella trasfigurata dalla televisione della prima scena, che induce proprio sul mondo (trans-reale) islamico, di donne condannate per futilità dalla bestialità della mentalità umana, aka stupidità culturale mediavale di una popolazione che necessita di fare il suo percorso.
Ma in The Screwfly solution, questo virus epide(r)mico esce dalla sua circoscrizione pratica/concettuale per propagarsi in tutto il pianeta in maniera estrema e tragica: tutti gli uomini, malati, vogliono liberare il mondo dalle donne per riconquistare l’Eden perduto. Ci addentriamo necessariamente in una dimensione biblica riletta in modo slasher, armageddon dei piccoli grandi schermi che Dante sa caricare di quella tensione perce(tti)pible anche senza il budget multi-milionario di Jerry Bruckheimer o le pippe tecniche di un Alfonso Cuaròn de I Figli degli uomini.
Il regista, da perfetto sadico incubatore di sogni tinti di sangue, dosa soluzioni violente ed estreme con grande scatto e lucidità: prendiamo d’esempio la scena dell’aeroporto, una normale ripresa standard, probabilmente pure televisiva, ma infarcita di una pazzia totalmente cinematografica, di un cancro sensitivo che si propaga nell’asciuttezza di questo film-maker che ha il dono di rendere credibile l’incredibile dei b’movie. E in quanto b’movie, con i suoi immancabili stilemi, in primis l’uso dell’ironia che vediamo fin dall’incipit, questa barriera invisibile tra il tragico e la risata, la lucidità e la demenza così calcolata e resa fluidissima dal nostro Dante che gioca con i pulpiti emotivi dei sensi. Di più: abbiamo pure momenti umani quasi commoventi, come la famiglia disgregata di Jason Priestley, una parentesi melò che l’autore si concede per equilibrare questo Cinema non solo di macro, ma anche di micro-storie con cui possiamo sentirci più vicini e toccati, quindi, automaticamente, meno sicuri, più vulnerabili e metempsicotici. Un dramma famigliare che comunque evita d’invadere il fulcro della narrazione, tantochè le morti famigliari sono colte in un giustissimo fuori-campo, lasciando ai suoi protagonisti la giusta dimensione privata e metabolica. Ma forse è proprio il fuori-campo, il decentramento, che diventa incentramento, dando a The Screwfly solution quella carica di tensione fisica/psicologica: in verità sono pochissime le scene esplicite di cui vediamo il formarsi dell’atto (la donna uccisa sull’aeroplano, per esempio), il resto è urlato con un sussurro, immaginato (i 1300 morti di cui parlano i poliziotti), un inglobarsi di ombre nere proiettate nell’immaginazione, nel proprio scavo estetico spettatoriale. Dante non ha bisogno dello splatter (a quello penserà l’episodio di Dario Argento: Pelts), ma invoca la sottrazione, il non visto Shyamalaniano (e a dire il vero quest’opera sarebbe stato progetto perfetto per il regista di Lady in the water). Il male è come il vento: non lo vediamo in modo totale e fisico, ma lo percepiamo forte nel suo espandersi globale ed interminabile, astratto e putrefatto come l’aria che respiriamo, di cui veniamo soffocati e soverchiati.
Infine, e non è un caso, il film svolta dall’horror alla fantascienza più pura, a sottolinearci ancora una volta che qua non stiamo parlando di creature immaginarie, di una fantasia remota nata dalla mente di un regista malato, ma di una forte-fortissima probabilità reale, la fantascienza come previsione di un futuro tutt’altro che roseo, ad incombere nell’al di là non (ancora) visto pronto ad attendere con minacciosità.
Dante ci induce a scavare fra le nostre paure reali ed immaginarie. Come una buona canna di ciocco, egli sa incitare le nostre percezioni più primitive senza forzare ed aggredire.
Un Cinema-stimolante, riflessivo, di questi incubi che inghiottono il mondo, ma non quello dentro lo schermo, bensì fuori. Fra noi e le nostre vite.

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