24° TORINO
FILM FESTIVAL, 10-18 NOVEMBRE 2006
DI UNO SGUARDO GENERALE – A cura di Giovanni Nasti
Mentre ancora risuona l’eco della mediaticamente sovraesposta, ma dal
punto di vista cinefilo ancora ingiudicabile festa del cinema di Roma, tocca a
una delle realtà affermatesi nel corso degli anni tra le più vivaci nel
panorama festivaliero della penisola , l’ex Cinema Giovani di Torino,
battere un colpo, e costituire una prima importante verifica dell’impatto
della kermesse capitolina sulle altre rassegne dedicate alla settima arte. E
bisogna dire che la vitalità del festival sotto la Mole c’è ancora tutta:
uno sguardo obliquo, capace di individuare il cinema meno omologato e meno
riconducibile alla solita contrapposizione tra i due grandi schieramenti (apparentemente
rivali, ma in realtà saldati in una alleanza indissolubile, nel modo di
pensare, un po’ come i nostri centrosinistra e centrodestra) del cinema
commerciale più dozzinale e del cinema d’autore più scontato, e che negli
anni scorsi ha portato alla ribalta, grazie a coraggiose retrospettive,
l’opera di alcune delle figure di artisti-artigiani che hanno saputo
operare nell’ambito del cinema americano di genere con personalità,
originalità e mentalità sovversiva, da Carpenter
a Hill, passando per Dante, Romero, Friedkin, Landis. E il rapporto con questi
cineasti si è negli anni consolidato, visto che, Romero a parte, tutti hanno mandato a Torino il loro ultimo lavoro,
e Landis e Hill erano presenti di persona. Ma ha anche riacceso, il festival
di Torino, i riflettori su autori dimenticati e sottovalutati, come i
brasiliani Bressane e Sganzerla.
Un festival dunque che si pone l’obiettivo di esaltare
l’indipendenza , non necessariamente quella produttiva ma sicuramente
quella creativa, e che, nell’ultimo anno del mandato di direzione a due
per Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto, non poteva trovare
migliore sintesi che nelle due retrospettive principali, dedicate a Robert Aldrich e Claude Chabrol. Il primo un cineasta chiave nel passaggio di testimone
tra vecchia e nuova Hollywood, cineasta anarchico e dissacratore, barocco
destrutturatore degli stilemi del cinema classico, in direzione di un
linguaggio capace di raccontare la realtà anche nei suoi aspetti più crudi, al
di fuori dalle trappole mistificatorie del Mito, il secondo, di cui si svolgeva
quest’anno la seconda parte della retrospettiva completa, comprendente
anche i suoi lavori televisivi, uno dei maggiori cineasti viventi, capace di
coniugare una maestria formale senza eguali con un inesauribile piacere di
raccontare, una spiccata personalità autoriale con una frequentazione dei
generi priva di complessi, la capacità di analisi e critica sociale e il senso
dell’umorismo.
Retrospettive seguite dal pubblico e arricchite da dibattiti e incontri che
sono un aspetto essenziale di questo festival, segnato da un’atmosfera
rilassata e dal contatto diretto tra pubblico, critica e cineasti, molti dei
quali, come Joe Sarno, Julio Bressane, seguivano il festival
come spettatori dopo aver presentato le proprie opere. Un’atmosfera
favorita anche dal clima sorprendentemente mite che ha caratterizzato il
novembre torinese…
Seguitissima dal pubblico anche la presentazione di alcuni episodi della
seconda serie dei Masters of Horror. Il serial ideato da Mick Garris, e che vede impegnati alcuni
dei maggiori autori che abbiano frequentato il cinema “di paura”,
prende sempre più una direzione di forte critica politica al sistema di valori
incarnato da quella parte di America che esprime il presidente degli Stati
Uniti, e la cui egemonia proprio in questi giorni viene messa in discussione
per la prima volta dopo molti anni dagli ultimi risultati elettorali. E’
così che John Carpenter prende di
mira i militanti antiabortisti, costruendo un gioiello di suspense che però
delude un po’ nel finale, mentre John
Landis punta la macchina da presa verso uno psicopatico alla Norman Bates
per rivolgere un sano sberleffo all’idea di sana famigliola americana dei
sobborghi cara all’immaginario repubblicano.
Dario Argento realizza un apologo
animalista, divertendosi peraltro a forzare le frontiere dello splatter,
suscitando nell’audience alternativamente ilarità e raccapriccio.
Più compiuti gli episodi di Brad Anderson
e Joe Dante, che grazie alla serie ha
trovato modo di realizzate un progetto coltivato per anni, quello di trasporre
il racconto The Screwfly Solution
della scrittrice nota col nome di James
Tiptree Jr. L’episodio si stacca dagli altri per lo stile visivo, che
a differenza degli altri non cerca di imitare una resa
“cinematografica” ma adotta quella tipica del docu-drama. Il
frammento (che in certe soluzioni ricorda un po’ l’Invasione degli Ultracorpi, soprattutto versione Ferrara), tramite la cronaca di
un’improvvisa epidemia di violenza contro le donne, porta alla mente
inevitabili riflessioni sul rapporto tra i sessi nel mondo di oggi. Anderson (L’uomo senza sonno) si distacca dalle tematiche più
immediatamente politiche per esplorare ancora una volta un’angoscia
individuale, che lentamente conduce il protagonista alla follia.
Mentre il film d’apertura del festival, Flags of our Fathers di Eastwood,
era già in sala il giorno stesso della presentazione, è da segnalare la
presenza di opere di alcuni importanti autori.
Big Bang Love, Juvenile A è
un’opera dal carattere fortemente sperimentale, segnata
dall’ibridazione di generi e linguaggi, che vanno a comporre una
meditazione poetica sulle radici della violenza. Bug, di William Friedkin,
tratto da un lavoro teatrale, dietro l’apparenza iniziale di un thriller
su contaminazioni e cospirazioni, si risolve in una tragica storia di follia e
solitudini. Un piccolo film molto prezioso, segnato da una grande
interpretazione di Ashley Judd.
Grande successo per la proiezione speciale dell’edizione restaurata e
criticamente corretta dell’Atalante
di Vigo, presente la figlia del
regista, da segnalare la proiezione di opere di Godard (due piccole preghiere per i “refuzniks”,
bellissima soprattutto la seconda, a nostro avviso), Snow, Pedro Costa, Strub-Huillet, Raul Ruiz, Julio Bressane, Makmalbaf, Luciano Emmer, Sokurov, De
Oliveira, Walter Hill (venuto a presentare Broken Trail, western televisivo di grande successo in Usa), Bogdanovich (con la riedizione del suo Directed By su John Ford), Johnnie To.
Molto seguito anche l’incontro con Nanni
Moretti, venuto ad accompagnare la presentazione degli extra,
particolarmente significativi, del DVD del Caimano.
Oltre ad Aldrich e Chabrol, altri cineasti sono stati
oggetto di retrospettive e omaggi. Il catalano Joaquin Jordà, recentemente
scomparso, a cui per la prima volta un festival internazionale ha dedicato una
retrospettiva: fondatore della Escuela de
Barcellona, ardito sperimentatore del linguaggio, sulla scia di Godard, capace di ricavare
dall’unione di documentario e fiction una miscela ad alto potenziale
politicamente esplosivo, tanto che per sfuggire alla censura franchista negli
anni Settanta sarà costretto all’esilio in Italia.
Piero Bargellini, cineasta aretino
straordinario protagonista di una pratica cinematografica libera e
sperimentale, e oggi praticamente dimenticato, è stato l’oggetto di una
retrospettiva di grande importanza, che ha permesso di recuperare alcune sue
opere di difficile reperimento e a rischio di scomparsa, che sono state
telecinemate e quindi rese potenzialmente di nuovo fruibili.
Per concludere l’omaggio in quattro film a Joe Sarno, prolifico autore di sexploitation movies, un genere di
cui egli è stato una delle firme più riconoscibili, retrospettiva che ha
permesso al pubblico torinese di conoscere e apprezzare un cineasta che è
riuscito a esprimere il proprio talento e le propria sensibilità personale in
uno dei generi cinematografici più commerciali per definizione. Considerato dai
suoi estimatori il Bergman del
porno-soft, Sarno rallentò la propria
attività in coincidenza dell’avvento dell’hardcore, e smise di
firmare i suoi nuovi film. Nel 2004 è tornato al cinema, rigorosamente soft,
col film Suburban Secrets.
Il Concorso Internazionale Lungometraggi del festival, riservato a nuovi
autori, quasi tutti all’opera prima o seconda, ha visto la vittoria del
film spagnolo Honor De Cavalleria di Albert Serra, rivisitazione della storia
di Don Chisciotte, che si è aggiudicato anche il premio speciale della giuria
ex aequo con l’americano The
Guatemalan Handshake, di Todd Rohal,
a cui è andato anche il premio per la miglior regia. Tra i documentari ha vinto Eliorama, di Maicol Casale e Alberto Momo,
dedicato al lavoro dell’architetto torinese Elio Luzi.
UN CONCORSO SENZA COMBATTIMENTO – A cura di Pierre Hombrebueno
Non ha la selezione maestosa di una Mostra del Cinema di Venezia, né i soldi e
la festosità di Roma. Ha di più, il Torino Film Festival giunto alla sua 24°
Edizione: la purezza. PUREZZA.
Puro come il Cinema incontaminato, senza filtri che possano in qualche modo
definirsi “economici” o di “lucro”, oppure quella
parola istituzionale sempre più fastidiosa che è il “glamour”. Non
ce ne fotte un cazzo delle star in passerella (a Torino non c’è nemmeno,
una passerella) né di tutto ciò che è extra, al di là del Cinema in quanto
Cinema e solamente Cinema = Arte.
Certo, abbiamo nomi celebri, quelli che attirano le masse, gli Eastwood, i Dario Argento, le Sofia Coppola, ma la differenza sostanziale
fra gli altri Festival è che a Torino, i nomi di Eastwood, Argento, o Coppola, devono scendere in secondo
piano, farsi da parte per lasciare spazio ad un nuovo/vecchio Cinema lontano
dall’immaginario, dalle pubblicità televisive o dai trailer
incandescenti, un ritorno all’Arte (cinematograficamente) militante,
immagini in movimento allo stato noumenico, perforanti e così attraenti perché
sconosciute, perché meravigliosamente potenti, rivelatrici. Basterebbe vedere
qualsiasi film In Concorso Lungometraggio al Torino per ri-mettere in gioco la
propria cinefilia e concezione/conoscenza di Cinema, per dimenticare
momentaneamente i tanti grandi Auteurs del Cuore e ritagliare grande nuovo
spazio all’inconscio, stupirsi anche solo dell’esistenza di tanti
capolavori celati da quel business che ormai ha invaso le altre manifestazioni,
che ne ha inquinato la vera forza, il vero delirio, divenendo occasioni troppo
elitari o troppo legati ai flash fotografici.
“Cazzo, perché solo oggi vedo film di questo genere?” è la prima
reazione. Giovani autori mai sentiti nella propria vita. Di cui non abbiamo mai
letto da nessunissima parte. E ci si chiede del perché queste opere siano state
nascoste, celate, per far spazio ai soldi e alla massa. E’ un delitto,
uno sterminio non sapere nemmeno dell’esistenza di cotanta meraviglia. Ma
grazie a Dio, esiste il Torino Film Festival a ricordarci che si, il Cinema
pulsa ancora più che mai anche (e soprattutto) negl’angoli più remoti di
questo globo, e ci invita a far parte di un piccolo grande universo creatosi,
ad espandere gli orizzonti verso nuove vette e nuove vittorie (non solo)
cinefiliche, un estremo ma idilliaco viaggio verso l’ignoto, più del
Fuori Orario Ghezziano (e guardacaso proprio Ghezzi è uno dei sostenitori più allucinati del TFF), un tesoro
ancora una volta rivelatosi per i fortunati. Perché il sottoscritto si è
sentito esattamente come un bambino innocente che si è guadagnato fra le mani
il saccone enorme di Babbo Natale tutto per sé, un saccone riempito di gioielli
alienati e alienanti provenienti da altri pianeti, viaggio iper-spaziale
kubrickiano di flash e luci, colori e metempsicosi, nuovo big bang o ritorno
all’anno zero della propria percezione, del proprio sentire, vivere,
amare il Cinema. Una prova quasi teorica quella che porta avanti il Torino
Film, un coraggio e una determinazione, un ritorno al senso più candido del
Cinema, una dimostrazione non solo che la Settima Arte è viva vivissima più
viva che mai, ma anche che la si può fare (meglio) anche senza il parallelismo
con l’industria. Di più: è un Cinema capace di attirare la curiosità
delle persone (a più proiezioni le sale erano estremamente piene di pubblico
pagante, e stiamo parlando di film del Kazakistan
o della Tailandia) – anche la
cinefilia vibra. Sembra solo morta e sepolta. Ma è pronta ad una rivoluzione
culturale, di quelle incandescenti, indimenticabili, le persone amano ancora
farsi avvolgere da quel Cinema che sembrerebbe così elitario; è ancora curiosa,
amante di una garanzia che il Torino Film Festival – e solo il Torino
Film Festival sa offrire.
Prendiamo d’esempio Buyi zhi le
di Xia Peng, regista di 23 (!!!) anni
che ci ha dati tumulti godardiani di immagini che viaggiano sullo stesso
binario di un Wong Kar Wai che
incontra Jia Zhang-ke che viene
sottoposto a Hou Hsiao Hsien.
E’ un film palesemente fatto con 4 soldi, girato in beta-cam digitale
(che sullo schermo appare come un divx di quelli tra i più scadenti) e che
sembra montato con Windows Movie Maker, ma di una forza così dirompente,
così ipnoticamente poetica da flasharsi totalmente sul subconscio. Quello di Peng è un urlo per un Cinema Ritrovato,
talento dell’Arte in quanto Arte e unicamente Arte. Standing ovation. Ha
solo 23 Anni. Perdio. E ancora l’italiano Flòr de Baixa di Mauro
Santini, studio immaginifico della soggettiva, un film senza sceneggiatura
e praticamente senza attori, ma pura emotività di (ricerche di) sguardi, di
quelle sperimentazioni (e provocazioni) visive che non vedevamo sugli schermi
dai tempi del Cinema di Andy Warhol.
Una scommessa che probabilmente non andrà lontano, ma che ha già moralmente
vinto anche solo per la sua realizzazione e completamento, riuscendo
addirittura ad entrare in un Concorso che solamente con l’apertura e il
coraggio di Torino poteva esaudirsi e compiersi.
E anche quando sembrerebbe che qualcuno sia sceso a patti inserendo un titolo
da cinema indipendente americano (The
guatemalan handshake), in realtà è anch’esso una dimostrazione
teorica. Perché il film di Todd Rohal
ci dà il privilegio e la possibilità di conoscere una nuova faccia di questa
cinematografia, ormai riempita di quei soliti 2 o 3 pseudi-autorini (Alexander Payne e Wes Anderson in primis) di cui sinceramente non ne possiamo più. The guatemalan handshake avrà anche la
fattura estetica da Sundance, ma
anche (e soprattutto) quell’evocazione più unica che rara, quella
sincerità priva di manierismi, di etichette, di stereotipi tipici
degl’altri autori sopra-citati.
Tutto questo solo al Torino Film Festival. Un Concorso in verità senza
combattimento, perché comunque vada, il Vincitore è uno e uno solo: il Cinema.
E con esso, la Cinefilia.
RIFLESSO: LA SPEDIZIONE ASIATICA A TORINO – A cura di Nicola Cupperi
E anche questo festival è andato. Andate le tre ore di sonno a notte, i
chilometri macinati zompettando da una sala all'altra, gli osceni pasti tra un
film e l'altro. Il festival in questione è il Torino film festival, la
ventiquattresima edizione per la precisione, senza molti dubbi il miglior
festival sulla faccia della penisola italica; il migliore per la
sperimentazione, la qualità dei film, il coraggio, l'ampia scelta che copre
tutto lo spettro che il cinema ci offre, e il rapporto di fidelizzazione che
crea con gli autori. Ma questi sono altri discorsi. Il boss, l'Hombrebueno, rischiando di farsi una
notte in stazione, ha strappato in extremis una branda nel mio alloggio; in
cambio, credo, e soprattutto per mancanza di alternative, mi ha commissionato
questo pezzo sull'avventura asiatica a Torino. Da parossistico asianofilo
risulta difficile proporre ragionamenti oggettivi; ma allo stesso tempo, da
asianofilo di vecchio corso, ma neanche troppo, si è imparato a frenare
l'entusiasmo. Partiamo subito coi numeri: a Torino erano otto i film
provenienti dell'estremo oriente. E questo conteggio comprende anche il bel
kazako Notes by a trackman; Il Kazakistan di orientale ha
ben poco, a parte i tratti somatici mongoli dei suoi abitanti e l'ubicazione
geografica: la cultura del luogo, la lingua e l'alfabeto sono quelli cirillici.
Facciamo sette e mezzo per quei film orientali presenti in Piemonte. Ecco che
frulla nella testa un primo cattivo pensiero: non è che in questa era della
cultura carta igienica (Usa & getta), il mondo cinematografico e cinefilo
abbia già riassorbito il maroso orientale che aveva sommerso le sale ed i
festival di mezzo mondo occidentale? Può essere, come no. La speranza è che la
situazione non sia così triste, che la situazione non sia che dopo un lustro
scarso di ribalta il cinema del far east torni nell'ombra. Un'altra ipotesi,
probabilmente più plausibile, è che non tutti sono Marco Muller; e che il buon sinofono organizzatore veneziano ci
abbia abituati decisamente troppo bene.
Pochi ma buoni, il proverbio declama. La saggezza popolare ha sempre un
fondamento di verità. E a Torino non si eccepisce: pochi orientali ma (quasi)
tutti buoni. Per chi vi scrive tre buonissimi.
L'incredibile Johnnie To col suo Election 2; impossibile trovare parole
che nella loro banalità non sporchino la bellezza di questo film. La sicurezza Takashi Miike, con Big bang love, juvenile A; in poco meno di quindici anni di
carriera e con poco meno di settanta film all'attivo, è ardita missione
cogliere Miike in flagranza del reato
di autoplagio. Il terzo bellissimo è il Thailandese in concorso Reanglao jak meangnue del non ancora trentenne Uruphong Raksasad, un piccolo compendio sulla vita che nelle sue
otto brevi storie più una raccoglie una visione pacata ma vera dell'esistenza
delle persone nel nord della Thailandia. Un piccolo gioiello.
Fra i belli sicuramente il coraggioso Buyi
zhi le del ventireenne, ventitreenne ripeto, cinese Xia Peng che camera alla mano entra nelle case dei suoi
concittadini, raccontandone gioie, dolori, disagi, passioni e quant'altro.
Bello è stato anche il nipponico Pavillion
sansho-uo dell'esordiente Tominaga
Masanori, demenziale giallo con protagonista uno strambo radiologo
ambulante (il mushi-shi Odagiri Joe)
e una salamandra di 150 anni, tesoro nazionale giapponese. Molto piacevole, mai
volgare o scorreggione; le risate diventano addirittura grasse e frenabili solo
con difficoltà quando il radiologo pettinato coi petardi decide che è ora di
aiutare i più deboli diventando l'emulo del siculo bandito Giuliano nel paese
del Sol Levante.
Le due note dolenti, per diversi motivi, sono il giapponese Noroi-The curse, aspirante emulo di The blair witch project, e il filippino Monoro. Noroi è un'irritante operazione
commerciale che vuole ripercorrere gli infausti passi dei tre malintenzionati
che avevano creato quell'idiozia di proporzioni bibliche che risponde al nome
di The blair witch project ; il
giudizio va da sè. Aspettiamo con ansia l'arrivo nelle sale occidentali per
incatenarci alle stesse e cominciare uno sciopero della fame. Monoro è invece la bella storia vera di
una ragazza tredicenne, Jonalyn, unica nel suo villaggio ad avere il diploma
elementare e a saper leggere e scrivere, che vuole cercare di alfabetizzare i
concittadini in vista delle elezioni presidenziali. Ciò che penalizza il lavoro
è forse l'altra brillante idea dell'autore, Brillante
Mendoza, e scusate il gioco di parole, ovvero l'utilizzo come interpreti
dei veri protagonisti della storia. Ma nonostante questo, gli appassionati
possono ritenersi soddisfatti: la sola presenza a Torino del film di Johnnie To rassicura sullo stato di
salute del cinema orientale. Vedere poi un giovane del 1983, ripeto ancora,
1983 come Xia Peng salire sulla
ribalta del concorso per lungometraggi di uno dei più importanti film festival
al mondo è semplicemente fantastico. Ricorda sempre a chi se lo dimentica che
il cinema è ancora vivo e vegeto, che anzi sta molto molto bene.
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