SOUL KITCHEN
REGIA: Fatih Akin
SCENEGGIATURA: Fatih Akin
CAST: Moritz Bleibtreu, Biron Unel, Wotan Wiike Mohring
ANNO: 2009
A CURA DI ALESSANDRO TAVOLA
VENEZIA 09’: COME TI SCOPO LA
FISCALISTA IN PIAZZA
A fare di Fatih Akin un autore non
sono né i premi né cose come l’aver saputo sfruttare al meglio una
pornostar come Sibel Kekilli, ma il
perpetuo dialogare tra ogni suo film, nel rapporto e nel contrasto, nel non
ripetersi (almeno sulla breve distanza di tempo), nel dare e poi negare
(pagare) il consenso ad un Cinema di (talvolta doppia) solitudine
reinventandosi goliardico e corale, spremendosi prima e lasciandosi andare
dopo, esaltando sia penne che platee che giurie: il premio dal nome più
prestigioso è oggi a Venezia 66 suo, così come le risate e gli applausi, ma
in modo quasi avventizio rispetto a quella che è l’eterogeneità di un
Festival. È doppio punto di rottura: se ci fosse una linea netta (e non
importa se suona come bestemmia) tra i film da festival e i film da sala, Soul Kitchen sarebbe totalmente dal
secondo lato, iperconcentrato di semplicità e gran ritmo di dialoghi (in
senso classico), situazioni sceme, situazioni attuali, sempre non astratte,
lieto fine non precisamente declinato, compattezza narrativa propria della
commedia; grossolana piega desiderata nel silenzio dal pubblico grossolamente
manifestata. Piace ridere facile e sbottonati, sbrodolando sghignazzi dei più
striduli, raggiungendo picchi col nudo di una webcam, con una pubblica
scopata a pecora ripresa con l’i-phone: le cinepanettonate vanno bene
se a farle è un turco-tedesco con personaggi greci. Il fracasso di risate e
poi applausi che ci sono stati erano solo perché si trattava del primo film
che lo potesse permettere (e perché Il
cattivo tenente di Herzog non
aveva oltrepassato quel piccolo insistere che gli avrebbe dato
l’onere/onore).
Soul Kitchen è per la commedia
europea universalmente accolta quello che Brooklyn’s
Finest di Antoine Fuqua è per
il poliziesco americano: toni noti e situazioni cronometrate, con regia
asservita alla causa. Asservirsi, e qui il secondo punto di rottura, di
probabile necessità per Fatih Akin,
che si defila e si declassa, per quanto possibile, apertamente già
dall’abbondare di personaggi e provenienze, di snodi narrativi e
improbabili risoluzioni, dando flusso a ciò da cui Ai confini del paradiso e La
sposa turca erano lontani, dei quali Soul
Kitchen è gli scarti mentali; e quello che Solino e Im Juli
sfioravano: l’estremismo popolare e il weekendismo, qui vincenti, che
lo rendono una sorta di pattumiera autoriale.
Se la merda è d’autore, questo è il barattolo, attraverso cui però non
si può vedere. Commedia aka cazzata aka il Cinema, se c’è, è nascosto,
quando non dovrebbe mai esserlo. Akin
mimetizzato in poche tracce dentro un gioco che non dà voglia di scoprirne
altri: Soul Kitchen come p.r. de La sposa turca, improbabile.
Macchiette pulite, bellezze varie, crimini e vizi, cuori infranti, legami di
salvezza, tutti tenuti insieme da colla profumata: la nostalgia,
l’avventura, chiara e oscura, i cieli pensierosi si sacrificano in
favore del continuo ricordarsi di essere seduti su una poltrona, sperando Akin sia morto un po’ per poter
vivere, trasformando la sporca lucentezza di prima in pulitissima volgarità
adesso, forse alle porte di un nuovo capolavoro magari sporco e volgare, o
pulito e lucente.
Non pessimo Cinema, nemmeno un brutto film: semplicemente insignificante,
porzione di parete bianca tra graffiti, ridere non per ridere, ma per non
poter fare altro.
Rimane che forse si tratta un po’ del Pranzo di Ferragosto d quest’anno, che però era un esordio
brizzolato, mentre questo è un adulterio interiore.
(20/09/09)