GRAN TORINO
REGIA: Clint Eastwood
SCENEGGIATURA: Nick Schenk
CAST: Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her
ANNO: 2008
GRAN TORINO
REGIA: Clint Eastwood
SCENEGGIATURA: Nick Schenk
CAST: Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her
ANNO: 2008
A cura di Pierre Hombrebueno
IL FILM DEFINITIVO
Non ci azzardiamo (ancora) a dire che Gran Torino sia il miglior film mai fatto da Clint Eastwood, troppe pippe cinefiliche – sogni impressi in momenti emotivi – disegni astrali e concettuali totalmente fanaticizza(n)ti – nonché il flash dell’appena vissuto, la folgorazione dell’ultimo disegno che forse si compie (per poi re-iniziare a vivere e a pulsare dentro noi, coeurs cinephiles), calmateci perché qua potremmo dire tutto (e sarebbe tutto giusto, senza possibilità di errore, Clint non sbaglia mai, Clint non è un genio: è posseduto dal genio), ma per ora congeliamo un attimino ogni plausibile scala qualitativa, giochino fantacinematico che al momento (ma solo al momento) non c’interessa (nonostante ci siano tutte le premesse e le promesse, ci sono sempre col Clint). Quello che c’è da dire è che Gran Torino è il suo film più definitivo, quello che più di ogni altro, porta avanti le sue idee (di Cinema, di Mondo) condensandole in un unico prodotto e scorrimento emotivo d’immagini in 2 ore di durata. Gran Torino come essenza dell’Eastwoodianità più diretta e palpabile, capace di unire quasi 40 anni di carriera in un tetto mai così ospitale e nel contempo maledettamente toccante ed introspettivo.
Walt Kowalski (lo stesso cognome del Marlon Brando di Un Tram che si chiama desiderio, guardacaso il ruolo di un rude stronzo) come il Frankie Dunn di Million dollar baby, l’uomo fottutamente solo che raccoglie dalla spazzatura una figlia per formarla, darle la possibilità di un’alternativa, una gloria, una vita. Walt Kowalski come il Preacher di Pale rider, lo straniero ectoplasma inserito in una nuova comunità per poi divenirne mito e protettore, neo salvatore o Gesù Cristo. Walt Kowalski come Harry Callaghan, conservatore individualista incazzato col mondo, pungentemente sarcastico, volgare, stronzo, uno che sputa sul proprio distintivo perché in questo cazzo di mondo la giustizia bisogna farsela da sè. Ma anche Walt Kowalski come Bronco Billy, il folle rimasto indietro nel tempo (in un costume da cowboy come in una divisa militare), nel sogno Fordiano, l’utopistico american dream disperso in un mondo in continua evoluzione. C’è lo sguardo a metà tra lo schifato e il disgustato (si, quello che conoscono bene coloro che nel corso degl’anni hanno accusato Eastwood di essere un cazzo di fascista) che qui diventa un continuo bombardamento, infermabile segno distintivo ed unicità ormai pietra miliare. Ci sono quegl’occhi, quello sguardo seduto ad osservare il tramonto, così automaticamente retrò e vissuto. I duelli nel vicinato sono nient’altro che gli stessi dei Western (tantochè c’è chi vede in Gran Torino nient’altro che un Western urbano fatto ai nostri tempi), mentre guardare Kowalski nella sua pick-up a chiacchierare con Sue fa direttamente pensare al rapporto tra Frankie e Maggie in Million Dollar Baby: la vettura è identica, l’inquadratura e l’approccio con cui si scambiano frasi apparentemente insignificanti, anche.
In un modo o nell’altro, come un magnifico e meraviglioso puzzle, tutti gli spicchi della filmografia (autoriale ma anche attoriale) di Clint Eastwood si incastrano fra di loro per formare l’immensità di Gran Torino, che proprio per questo nasce come film di un fantasma, di frammenti e memoria di un già visto riportato all’estremo e al completamento: odore di un amore che è anche casa, giacchè Eastwood non è più solo Cinema, bensì cultura serializzata e mito, leggenda.
SO TENDERLY..
THE STORY IS
NOTHING MORE
THAN WHAT YOU SEE
Ce lo canta Eastwood con la sua voce roca e spezzata nella magnifica canzone dei titoli di coda (un brano di altri tempi, come è di altri tempi (e galassie) il nostro Clint), e indirettamente ci sta dicendo esattamente il principio del suo modo di fare Cinema, del suo essere Classico: la storia è niente più di ciò che vedi. La semplicità che è anche la funzionalità di uno story-telling ormai totalmente unico nel nostro panorama, una cristallizzazione narrativa che altri classicisti come Ron Howard si sognerebbero (senza poi riuscire nell’intento nemmeno dopo 59 mila film): Eastwood è la semplicità stessa e l’essenza del racconto/raccontare, e dunque, automaticamente, la modestia. Pochi provano a girare come Clint non solo perché è fuori tempo massimo, ma perché in verità è un modo di mettere in scena tanto più rischioso, in quanto girare come Eastwood significa mettere a nudo il meccanismo del Cinema, senza brogli, senza sotterfugi, privati dell’arma della concettualità modernistica, extra-filmica. Nessuno, oggi, fra gli autori affermati, gira ancora col manuale del classico per il semplice motivo che nessuno di loro ne ha assorbito e captato il meccanismo più efficiente e potente.
Una volta un montatore disse: “E’ ovvio che ci sono mille modi di raccordare due inquadrature, ma sarà solo in un unico punto preciso che il taglio non verrà percepito dallo spettatore”. In questo senso, Eastwood è un paradosso, perché da una parte Gran Torino mette in mostra la perfezione di uno sguardo limpidamente manualizzato, dove ogni quadro si raccorda all’altro con effervescente invisibilità, come se ogni battito del film sia stato studiato meticolosamente fino all’ultimo dettaglio, e dall’altra, tutto appare invece così spontaneo, così naturale, quasi naif, che viene quasi da chiedersi se Eastwood stesso si renda conto della perfezione che concepisce, dei Capolavori che ogni volta forgia su schermo.
La storia è tutta qua, nothing more than what we see, Kowalski seduto sulla sua veranda a bere birra insieme al suo fedele cagnolino col sole al tramonto, la storia è in questa invisibile percezione di uno scorrere del tempo che si marchia di purezza, l’immagine in quanto immagine e nulla più, l’immagine che è storia, dunque Cinema, et automaticamente evocazione, forte tremolio misto a farfalle nello stomaco, Amore non solo verso un Autore ma verso un’Idea ormai inesistente ma che ritorna qui incessante, viva nel suo essere gesto ectoplasmico, regalo al mondo e agli spettatori. La sfida, la difficoltà e la grandezza di Eastwood e di Gran Torino stanno proprio qui, nel valorizzare una sceneggiatura semi insignificante scritta da un tizio sconosciuto venuto dalla televisione (Nick Schenk), dando ancora una volta lezione di quanto poco conti uno script, perchè a fare Cinema sono le immagini e l’occhio con cui il regista riesce a darne flusso: con Eastwood è sempre un ritornare alla base della grammatica dell’inquadratura e del montaggio, un lottare (per poi vincere) senza armi. Clint non ha bisogno di masturbazione mentale (se non una prettamente legata al percorso autoriale), di effetti/concetti, gioca sempre a carte scoperte e a mani nude, e per questo, il suo lavoro estetico, che a primo occhio potrebbe essere banalizzante, è invece un diamante d’essenzialità: un ottimo cantante non ha bisogno del coro nei suoi concerti. E sono pochi, oggi, quelli che riescono a farlo.
Non sorprende nemmeno vedere che molte inquadrature siano esattamente la contemplazione di un primo piano, sia verso le smorfie del protagonista, che in contre-plongè mentre picchia minacciosamente un gangster: E’ proprio il viso di Clint Eastwood, qui così insistito, che fa la storia di Gran Torino. Perché quello stesso viso, con le sue rughe e i suoi occhi incisivi, hanno segnato e stanno segnando la Storia (del Cinema, dell’America, del Mondo).
PUNTO DI SVOLTA: RINNEGAZIONE E MATURAZIONE
GLI SPIETATI / GRAN TORINO
(ATTENZIONE: CONTIENE SPOILERS)
E’ ormai chiaro che gl’ultimi film di Clint Eastwood siano sì un riguardarsi indietro e portare avanti un’idea autoriale, ma cosa ben più importante è la rinnegazione (e quindi: completamento) che compie con la propria auto-critica. Ad ogni passo nuovo è meraviglioso vedere come le idee che Eastwood mette in discussione siano proprio quelle stesse che ha adottato in passato, prova che è un Autore che mai smette di crescere e di interrogarsi (a quasi 80 anni!), cosa più unica che rara nel panorama cinematografico contemporaneo. Segno lampante è la risposta a Gunny con Flags of our fathers, che ne decostruisce ogni ideologia con un nuovo ritratto che ha il peso e la forza della saggezza accumulata nel corso degl’anni e delle proprie esperienze.
Sotto questo punto di vista, l’ultima opera di Eastwood assume un’importanza esemplare, in quanto fra i suoi recenti lavori è quello che più esplora (e affonda) le sue tematiche più care, contemplate e marcate. Prima di Gran Torino il film più definitivo del Clint è stato Gli Spietati: Tutto si concentra e ruota attorno a quest’opera, dai vecchi Callaghan o Il texano dagli occhi di ghiaccio, fino a Mystic River. In Gran Torino invece, ciò che vediamo è esattamente la sua ri-attualizzazione, e dunque, il successivo suicidio (necessario per rinascere).
Ne Gli Spietati Eastwood interpreta un ex killer ormai incapace di centrare ogni minimo bersaglio: col passare degl’anni è diventato goffo, sa a malapena stare sul cavallo, perché si è rifatto una vita normale con la sua famiglia, crescendo i propri figli. Sarà la crudezza del destino (l’inevitabile pessimismo cosmico), a farlo ritornare lo stronzo che era una volta, terminando il suo cammino con l’uccisione del nemico Gene Hackman per vendicare la morte dell’amico Morgan Freeman. In Gran Torino invece, abbiamo esattamente il giro opposto: Kowalski, nonostante si sia rifatto una vita dopo la guerra, sposandosi ed avendo figli, è diventato ancora più incazzato col passare del tempo: mugugna, bestemmia, minaccia i suoi vicini di casa, sputa ovunque, prende a pugni e calci lo sfigato di turno. Quando il climax della narrazione ci riporta nuovamente verso la vendetta finale come risoluzione dell’intreccio, è inevitabile ripensare all’Eastwood spietato col fucile in mano mentre uccide freddamente i propri nemici. Eppure, qui l’Autore compie il twist definitivo, ribaltando totalmente l’epilogo de Gli Spietati: stavolta lui sceglie di gettare l’arma per sacrificarsi.
Come la Mo Cuishle di Million Dollar Baby, il Kowalski di Gran Torino è ombra nera fin dall’inizio, ed è proprio in quell’atto finale del morire che finalmente abbraccia il dono della vita e dell’eternità, che se da una parte porta a compimento l'essere leggenda (live the legend, vediamo scritto sulla valigetta del nostro protagonista), dall’altra è evidente segno di un mettersi da parte per lasciare spazio alla nuova generazione, ai figli. Gran Torino è un film proprio per loro, per tutti i figli sfuggiti, perduti, mai avuti del Cinema Eastwoodiano. Ora sono lì, vivi e verso il futuro in quell’auto, una Gran Torino del 72’ (come non se ne fanno più), finalmente sorridenti verso strade lunghe di cui non riusciamo ancora a vedere la fine: è la vita con le sue sorprese, la vita che continua a scorrere incessantemente in un tramonto che stavolta, sa davvero di tenera pace e stabilità.
William Munny è il buono che alla fine torna cattivo. Walt Kowalski, figura antitetica (e per questo complementare), è il cattivo che alla fine si riscopre buono. Eastwood non è più un anti-eroe, perché hanno ragione i suoi vicini stranieri: lui è, a tutti gli effetti, un Eroe. Stavolta più che mai.
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(16/03/09)