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e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

A cura di Dario Stefanoni

REGIA: Tom Ford
SCENEGGIATURA: Tom Ford
CAST: Colin Firth, Julianne Moore, Nicholas Hoult
ANNO: 2009

UNA SOLA MORTE

Si è scritto molto, e in toni generalmente entusiastici, del primo film da regista di Tom Ford, celebre designer per maison d’alta moda come Gucci e Yves-Saint Laurent. Che A single man, tratto dall’omonimo romanzo di Cristopher Isherwood, sia un’opera stilisticamente matura e originale è certo sorprendente, tanto più che lo sguardo dello stilista non nasconde affatto le sue velleità estetizzanti: ogni immagine è curata a puntino, ogni personaggio leccato e pettinato a dovere, ogni situazione coreografata con elegante compostezza, come una sfilata di moda. Sarebbe fin troppo facile pensare ad A single man come ad uno spot in forma di lungometraggio, ogni singolo quadro pronto per la gogna del Patinato&Pubblicitario, se non fosse che all’innaturale, divinizzata perfezione dei corpi fa da contrappunto il sofferto minimalismo di gesti e psicologie, il pathos raffreddato ma percepibile, vivo. E’ esattamente in questo scarto tra eccesso (della forma) e pudore (del racconto), tra la confezione leziosa e il dolore che ne è imbrigliato, che si nasconde il cuore del film.
Tra i due estremi, a pesare sui sordi rituali quotidiani di un professore omosessuale di mezz’età, vi è l’ombra unica di due morti: quella del compagno amato per tanti anni, e la sua, un suicidio minuziosamente allestito, poi goffamente rinviato, infine, quando sarà comunque troppo tardi, serenamente tradito. Un’aurea mortifera che impregna di sé personaggi e situazioni, che intacca persino l’immagine, spenta e desaturata, incolore come il vuoto affettivo ed esistenziale in cui il prof. Falconer scivola all’indomani della tragedia. Stretto tra due lutti, uno passato e uno futuro, Falconer tenta di affrontare entrambe con lo stesso rigor mortis, tanto nel superare il dolore della tragedia, amministrandone il ricordo con apparente freddezza (ma intimamente macerandosi nel rimpianto , d’accordo con l’amica Charley che “Vivere nel passato è il mio futuro”), quanto, dall’altra, nel pianificare metodicamente il suo stesso suicidio, come ad addomesticarlo razionalmente per renderselo più sopportabile (nel preparare gli abiti per la sepoltura non dimentica una nota per la cravatta: “Fate un nodo Windsor”). Una delle scene in questo senso più emblematiche è anche uno dei momenti psicologicamente più fini e controllati del film: la telefonata in cui gli si comunica la morte dell’amato Jack, tutta tesa (anche a partire dalla stessa immagine che la incornicia: fissa, equilibrata, di un’armonia funerea) a contenere la reazione emotiva entro frasi di circostanza, soffocate, monosillabiche e neutre, come a non voler lasciar trasparire nulla della sofferenza di cui Falconer, oltre che vittima, è anche l’unico testimone. E mortifero e angosciante è anche quello che lo circonda: come vicinato gli spetta una famiglia splendidamente e ipocritamente media, capace di celare sotto l’affettata cortesia piccole e grandi mostruosità (se un ralenti ritrae il figlioletto intento a smembrare una farfalla, altrove il diktat omofobico del padre è delicatamente confessato da un accenno distratto della figlioletta) e come Paese d’adozione -il prof. Falconer è inglese, come Isherwood stesso- gli USA della crisi missilistica di Cuba, asserragliati nel bunker emotivo del terrore atomico (paura che per Falconer è sineddotica di ben altro: “Paura dei comunisti, paura dei fianchi di Elvis, paura che l’alito cattivo possa rovinarci le amicizie, paura di essere soli, paura di essere inutili”). Un interstizio tra due morti capace di illuminarsi (letteralmente) di colore solo quando Falconer rievoca il passato in fugaci preghiere di nostalgia che sconfinano, a tratti, in una necrofilia dell’anima (confessandosi nel commento al cielo rosato dallo smog: “A volte le cose orribili hanno una loro bellezza”), o quando la speranza di un nuovo amore (con il giovane studente) o di un’ intesa su cui contare (con la vecchia amica Charley) sembrano alleviare la silenziosa disperazione che lo opprime.
A single man è precisamente quello che si agita in questo breve e mutevole interstizio: la schizofrenica Tontentanz di George Falconer , una danse macabre pericolosamente oscillante tra i ralenti oppiacei della morte che lo chiama, e, dall’altra, gli slanci luminosi di una vita di nuovo possibile. Una morte schizofrenicamente abbracciata e negata, romanticamente riaffermata (“La morte è il futuro”, si lascia sfuggire nel chiacchiericcio da bar) e poi nuovamente superata (ergo, accettata) e ricondotta circolarmente -e piuttosto forzatamente- all’incipit. Oltre la potenza formale che sembra guidare la danza, pulsante nella varietà di espedienti visivi (i ralenti tra il pacchiano e il maestoso, i jump-cut, i viraggi inattesi), nell’accuratezza costumistica e scenografica e nel cronometrato, impeccabile duetto di attori (Colin Firth e Julianne Moore, di disperante fascino e intensità), A single man un’anima la possiede eccome, e quest’anima è nera, amara, isterica e racconta di solitudine, rimpianto, nostalgia, amore, paura e morte.

Con un avviso: cercare di incidere troppo a fondo la crosta iconica del film per mettere a nudo l’anima di cui sopra, tanto nella dissezione infastidita di chi non sente sua quella danza, quanto nella distaccata revisione che può seguire ad una prima visione euforica*, rischia di far sembrare quanto state guardando un’unica odiosa dittatura della Bellezza cosmetica - persino quando questa stessa Bellezza dovrebbe farsi Goffaggine (cfr. il balletto con Green Onions) – con l’atroce conseguenza di perdere il filo delle passioni e di lasciare così la sovrastruttura stilistica violentemente scoperta, con la musica calligrafica e inutilmente pervasiva a gonfiare il vuoto improvvisamente venutosi a creare tra gli sguardi luccicanti che, più imbambolati che erogeni, sembreranno (ora) rimbalzare stupidamente come specchi riflessi per tutto il film, più o meno come le (ora) tremendamente affettate intermittenze coloristiche. Vale a dire: non fatelo. Perché questo è uno di quei casi, per dirla con von Hoffmanstahl, dove la profondità è nascosta in superficie.

* L’errore di chi scrive, motivo a cui si deve lo sviluppo incoerente, la scrittura altalenante e la chiusa imbarazzante di quello che state leggendo.

17 febbraio 2010

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