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e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

Sezione in riallestimento (spiacevole sbavatura), doverose scuse senza scusanti. Rimettiamettiamoci, per ora, alla vecchia (ma completa) versione
(è possibile che in alcuni casi sia necessario sostituire il dominio "com" con "it" nella barra degli indirizzi)
A cura di Alessandro Tavola

REGIA: Pedro Almodóvar
SCENEGGIATURA: Pedro Almodóvar
CAST: Penelope Cruz, Lluís Homar, Blanca Portillo
ANNO: 2009

LO SCHERMO ROTTO MA BEN EDUCATO (O A RUOTA LIBERA E IN DISCESA SU ALMODÓVAR)

L’Almodóvar dell’ultimo decennio traccia un trasversare (ancora in fase di compimento) verso un rappacificamento attorno ad un (bi)sogno sfumato, esaurito quello di mettere forma in/dentro immagini della prima e più vasta fetta di carriera, che s’aggira nella stratosfera del globo dei suoi film (o del suo unico perpetuo trentennale film), osservando l’orchestrazione più omnicomprensiva del suo creato (e creabile), raggruppando e sforbiciando, rendendo drastico, semiassoluto, definitivo, di volta in volta un’esagerazione differente: Parla con lei e Tutto su mia madre come il compimento di un silenzio delicato, il conquistare la mancanza del bisogno di (anzi, il dovere di) urlare la propria cinematograficità, il raffinarsi di un’essenza manipolatrice ma invisibile, un paradiso di morbidesse da subito alienante, sùbito sotto la spinta del desiderio (Deseo, la sua casa di produzione) di un inferno che riportasse alla sua forza bruta l’immagine-film, dando La mala educación, Volver e Gli abbracci spezzati, rideterminando alla carne della finzione e del mettere in scena, come un vulcano, un maremoto, un ciclone, nutrendo l’esuberanza del regista/dio/demiurgo che letteralmente gioca (ma non senza sporcarsi di sangue) con la materia, le inquadrature, il progredire e il regredire, l’ingannare, il mettere in dubbio parte di quel tutto che è la calamità detta Cinema.

Se questo essere titanico è meno totalitario in Volver, che si voleva commedia circense edulcorata ed anatomica, sparviero furbo col suo illudere ed eludere la fisicità (Penelope Cruz italicamente imbottita, Carmen Maura fantasmagorica, cadaveri da nascondere, il vento), La mala educación e Gli abbracci spezzati parlano, si scrutano, si sputano in faccia a vicenda dopo aver stremato il loro osso/dubbio rosicchiato d’affanno, allucinato berserk uno e assorbito d’assenzio l’altro, Caino e Abele tsukamotati nel metallo della forbice registica, delle cesoie (post?)postmoderniste che Almodóvar è arrivato a poter impugnare: se ancora c’è chi torpido parla di forma e contenuto (perché il contenuto è l’oppio dei cinefili e non solo), la questione, meglio detta come squisita eterogeneità senza risoluzione, è diventata di quanta forma ci debba essere nella forma, ed oggi, anche perché questo è un cazzo di sito internet e ragiona di foto e video embed, quanto di quali forme (visive) possano formare la forma; un Frankenstein cosplayer dragCinema. Film come Redacted, Cloverfield, Planet Terror o District 9 fanno ciò inconsapevolmente almeno quanto Godard profeticamente lo anticipava (e di qui forse l’unica verità inconoscibile: se sia un punto di partenza o un( )a(nno) luce irraggiungibile), in quanto “autorizzati” nel loro avere presupposti fantascientifici (anche Redacted, come se il presente, ma assente perché d’impalpabile empatia, fosse solo futuribile) liberanti (allo stesso modo in cui lo sguardo in macchina era per la commedia e non per il dramma), ma con Almodóvar, drammaturgo e non fantasy (nei sensi stretti), gli effetti sono devastanti: nella scelta tra diminuire e l’aumentare, tra un tete a tete (un neoclassicismo dall’inquadratura fedele alla compattezza generale, poi da riempire con tutto quello che il cervello può accogliere) ed un’orgia, sceglie la seconda, in cui i corpi non si contano più, si confondono, si uniscono, si possiedono l’un l’altro, mescolando umidità (e geni), perdendosi e riacquistandosi in base allo svarione suggerito dall’istante, senza né mogli, fidanzati o parenti, senza storia, personaggi, identità, contenitori; in una ricerca dell’annullamento che non può non sfociare che nell’egocentrismo dell’autore, della sua biografia, del suo mo(n)do cinematografico-cinefilo, della sua carriera, nel loro succo più nervoso e centrale (come l’Allen di Harry a pezzi e Hollywood ending, come tutto il Tarantino dei duemila, per fare due nomi occidentali almeno in questo insindacabili).

Ne La Mala educación, Bernal muta dal proprio personaggio a suo fratello, passando per travestito (da sua sorella), volendo interpretare nel film che si girerà proprio il ruolo relativo al consanguineo di cu aveva preso le sembianze; e quel film sarà insieme opera tangibile e flashback: cambi di formato, snaturamento dell’identità dell’immagine, frullato di pensieri e facce, labirinti sovrapposti di personalità, Mulholland Drive portato a dimensione terrena/formale (e per questo più truce).
In Gli abbracci spezzati si gioca un ping pong tra i primi anni novanta e il presente: il protagonista è un regista gay diventato cieco (sì, Hollywood ending, appunto) che ora scrive sceneggiature (e scimmiotta Twilight); nel suo passato c’è Penelope Cruz, che diventa sua amante, che diventa protagonista del suo film che diventa film a sé da quello iniziale, mentre su questo viene a sua volta girato un documentario/pedinamento: cambi di formato anche qui, passaggio al digitale, umori distanti nel tempo si contrastano, narrazione matrioska, affollamento di identità, riprese stilistiche (dal noir classico, come dal suo più puro epigono De Palma, come usuale per Almodóvar).
Questo è il gioco della forbice, che sdoppia e raddoppia, e rende transgenico, disorganizza in risultato (apparentemente) semplice (e pericoloso) di moltiplicazione che insieme dà incertezza e perfezione, come se il mascherarsi (più volte, a seconda) sia, anche per il Cinema, la necessità che lo faccia rendere vivo: come una persona in mezzo a milioni di altre, il Film è adesso un audiovisivo tra gli altri, con l’indigenza di un egoismo-travestitismo, diurno quindi sobrio (Volver) o notturno e (cine)maniacale da Shortbus Club, sia hard che soft: se La mala iniziava con un Alberto Iglesias hitchcockiano e devastato su titoli di testa dal feticismo febbrile che ad ogni membro della troupe accoppiavano un’immagine perentoria e meccanica, ora si inizia in maniera più classica (vuoi anche per la corrente dei tempi che disdegna i titoli di testa) con solo i crediti principali; se prima si terminava sotto l’emblema ardente di un motto «Con la stessa passione», adesso ci si arrende aggiogati al dovere senza evasione di terminare il film, anche se ciechi (accecati) con un’elusiva lenta dissolvenza in grigio-quasi-nero. E si tratta di due momenti di (e)stasi opposte ma sotto la stessa possessione, adesso di un Almodóvar forse stanco, ma intenzionato a dare un Film nebuloso, addormentato, di personaggi (nudi) a metà o relegati in (più) spazi e tempi, secondo le elementari dinamiche (del sogno) di una femme fatale, di una vendetta, di un’assenza di senso, di un qualsiasi-cosa-sia interrotto, slabbrato, sfilato, un abbraccio appunto spezzato, una ricucitura sovrana, di un globo che osserva i suoi (piccoli) animali. Assenza di pietà diffusa, in metastasi, lì dove La mala era brutale. Penelope Cruz che in uno split diopter chiede di essere messa a fuoco dall’uomo che ha tradito. Un proiettore separa personaggi, con la stessa insistenza con cui ci vengono dati la videocamera e il suo operatore dallo sguardo maniaco. Mateo Blanco si fa chiamare Harry Caine (e lo pronuncia «Uragano»). Una coppia finisce per caso in una fotografia panoramica.
L’amore (si) uccide, se non per un happy end di dovere, senza che nessuno però sappia chi (tornare ad) essere.

27 novembre 2009

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