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e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

Sezione in riallestimento (spiacevole sbavatura), doverose scuse senza scusanti. Rimettiamettiamoci, per ora, alla vecchia (ma completa) versione
(è possibile che in alcuni casi sia necessario sostituire il dominio "com" con "it" nella barra degli indirizzi)
A cura di Alessandro Tavola

REGIA: Carlo Vanzina 
SCENEGGIATURA: Carlo Vanzina, Enrico Vanzina, Diego Abatantuono
CAST: Diego Abatantuono, Emilio Solfrizzi, Dino Abbrescia
ANNO: 2007

IO VI BATTEZZO, CARLO ED ENRICO…

Finalmente, è la prima volta che abbiamo modo di parlare dei Vanzina qui su Positif, anche se in un’occasione non proprio felice, un po’ di fretta e non senza imprecisioni. Volev(am)o.
Tutti quelli che pensano che sarebbe stato meglio non farlo che tornino a giocare con le foche.
Non l’abbiamo mai fatto, non abbiamo mai proferito sulla Commedia Italiana, quella storica, della continuità, che da dove e iniziata non è mai cessata, mutante e in continuo ricambio (ma non oggi) additivo, che di tante pagine necessiterebbe, d’elogi e non d’apologie, che attualmente sarebbero l’oggettività contro il luogo comune, contro quelle frasi di riciclo e riutilizzo che al riguardo sono sempre patologicamente finto-morali e finto-ragionate quanto quelle che esauriscono Woody Allen con l’intellettualoide-occhiali-balbuzie-psicanalisi, disposte per caso e non per visione, per comodo e non per pensiero, per modi oltre lo snob: wannabe snob che tende a sentirsi l’anima in pace bollando il ciò di un Cinema che in realtà è ciò che vive, che è; mancanza di autoironia, autoriflessione nonché autostima e tutto ciò che riguarda il confrontarsi con se stessi, come tanti modelli rincoglioniti e sicuri di sé durante una visione di Zoolander.
Ma il rapporto col denaro e con l’immagine della ricchezza in Montecarlo Gran Casinò vale quanto la situazione del moderno, appunto, in Tempi moderni che a sua volta non vale meno di quella di The crowd che ancora non vale di più dello sbagliare istintivo di Toro scatenato. Questo parlando dell’interiore, dello spirito-motore che di certo non fa il Cinema, ma che ha da essere preso in considerazione nel confrontarlo, nel pensarlo, nel scavarlo dopo che esso s’è manifestato, qui tranquillamente in quattro mo(n)di differenti, d’estremità opposte, di capacità e volontà differenti, d’intendenze visive assolute cinematograficamente nadir, legate univocamente attraverso il tempo e il desiderio, che non fa stonare in una stessa tela di rapporti Vanzina, Chaplin, Vidor e Scorsese quando li si guarda nella loro filmicità fatta di un inizio e di una fine, di colori e di parole e non d’altro. Cinema differenti, sotto quasi tutti i fattori, perché la questione è di tipicità e non di qualità, la prima argomentativamente più neutra e oggettiva del discorrere denominato dalla seconda, seppur le differenze siano minime quando non nulle.

Chi erano e chi sono i fratelli Vanzina, chi era e chi è Carlo, chi era e chi è Enrico, che iniziarono in un periodo di tumulto, l’inizio degli anni ’80, mentre parte del Cinema stava tirando ultime boccate, tra ricambi generazionali, indecisioni produttive, involversi di generi in un menage di sceneggiatori-registi-attori (vi)vido più che in altri tempi; un movimento di cui non erano certo capitani, seppur oggi sineddoticamente a torto considerati come l’I-pod per i lettori mp3, ma parte di schieramento: la corrosività circense di Cicero, la rusticità sanguigna di Castellano & Pipolo, l’eleganza sincera di Sergio Corbucci contro il fracasso del fratello Bruno, la precisione di Sergio Martino, la precisione straripante di Enrico Oldoini, la cine-purezza dello slapstick di Neri Parenti e tutti gli autori qui non citati; vivaio in cui spesso i tratti salienti sfumavano gli uni sugli altri pur rimanendo regist(r)icamente focali(zzati), dove i Vanzina (qui è giusto considerarli entrambi) avevano la loro cardinalità esclusiva, così come non avevano (la capacità di riprendere) ognuna di quelle degli altri.
Perché se l’autorialità stava (“sta” vale solo per Oldoini e Parenti) nella presenza della stessa, per i figli di Steno era invece nella non-presenza di taluni elementi che proprio dal particolare sviavano verso quasi una depurazione della singolarità, un’assenza di commento messinscenico e costitutivo, dandosi all’apparizione piuttosto che all’apparenza, vedere invece che guardare, documentaristi delle situazioni autodate in sceneggiatura a sua volta data dall’esterno, delle interpretazioni, degli attori, della più o meno fitta presenza degli elementi che s’era deciso di porre; e proprio nell’incastrarsi di cose (attitudini, oggetti, approcci, reazioni) più che di Cosa, totalmente spogliate di virtuosità per un neorealismo, un cinema-veritè con la pelle di comico, che non tenta di creare un altro mondo: sotto ogni interpretazione, sotto ogni vezzo, attraverso ogni caduta di gusto, ogni situazione era qualcosa di autenticamente vero, attraverso un legame assolutamente diretto e, nella completezza, immancabile: se con ogni Fantozzi ci si può fermare alla fantozzianità in sé (che è puramente Villaggio più Salce all’inizio, più Parenti, maggiormente, poi), con ogni Vanzina non si può non captare il vero, cadere nel raccontato che è mezzo e fine e finalità allo stesso tempo.

Ogni Vanzina, almeno da I fichissimi a Io no spik inglish, è una Relazione, che tende ad incanalare quanti più elementi possibili sull’argomento che tratta, mantenendo sempre intatte alcune fedeltà: comicità verbale e regionale, la messa in rilievo di mode e costumi sia positivi che negativi quasi in maniera brutale, l’essere sartoria per i caratteristi presenti; in una sola parola: l’italianità di un dato momento. Che rimanda all’instantaneità, quale camorristicamente può essere accollata alla televisività, di suo imprescindibile dal quotidiano della mediocrità, alla quale han donato ciò che della tv non è biologico nella propria volatilità: l’immortalità data dall’essere parte del Cinema, alle usanze, i modi di dire, gli attori. Tanto quanto i Coen han sempre parlato del destino.
Ogni Vanzina ama gli Average Joe che narra; è un’Analisi che ha come grafia la Risata (e non solo: Tre colonne in cronaca). Il loro prototipo è Vacanze di natale, il loro capolavoro Yuppies, destinati a durare nel tempo proprio per il loro aver congelato un tempo, che oltretutto è ancora vivo, in quel connubio di script e veduta che per anni sono stati in perfetto amplesso, oggi però disgiunti: se il verbo continua ad essere ferreo (Un ciclone in famiglia ne è la prova: sana televisione disimpegnata, risultato di autoricerca ontologica che solo nella “televisione per la televisione” poteva avverarsi), è la regia che pian piano è andata spegnendosi, da quel A spasso nel tempo, incoronamento devoto alla duo Boldi-De Sica che né prima né dopo ha mai avuto tale centralità in alcun film, dove Carlo ricercò, riuscendoci, un approccio col comico che comunque non gli competeva, determinando, congrua alla disfatta cecchigoriana, il passaggio al mainstream di Neri Parenti (che a sua volta, giocoforza, si volse al popolare). South Kensington, Il pranzo della domenica, In questo mondo di ladri: opere poco considerate che determinarono il declino revival, culminato in Eccezzziunale… Veramente: capitolo secondo me, Olè e 2061. Eh…
Come natura eroica vuole, ascesa e discesa di un talento, di un mito, cui, non saremmo qui, il Cinema riesce a sfuggire.

Nel pensiero ma non nel discorso, già lungo per essere una breve descrizione ma troppo breve per essere un profilo completo, parole su un’altra legata grande infamia:
Christian De Sica e Massimo Boldi combacia(va)no tra di loro e coi propri personaggi quanto Morgan Freeman con la riflessione, Jack Nicholson con Jack Nicholson, Isabelle Hupert con la sensualità, Alessandro Haber con il nervosismo, quanto ognuno di quei rinomati attori che hanno interpreto e interpretano lo stesso ruolo tutta vita. E questo è quanto.

… L’ETERNO RIPOSO DONA LORO SIGNORE.

Quante battute, che potrebbero brillare.
Quante intuizioni, che si sopiscono come la fiamma blu di un fornello intasato.
Perché i Vanzina sono (sempre stati) ottimi sceneggiatori. Ma su Carlo, che dirige, la senzazione è proprio quella di un blocco causato da un intasamento, come un obeso che non riesce ad alzarsi neanche per impugnare del cioccolato, già sazio di un Pranzo (della domenica) di cui rimane soltanto la nostalgia, la malinconia post abuso, la tristezza di una senilità anticipata e sofferta e il sentire di non meritarsela.
In 2061 tutto è fantasma: da Abatantuno che terruncellamente era morto da tempo e ora sembra in putrefazione, con pelle scura e capelli grigi; alla regia che pare fatta di disinteresse e soli campi medi, più che di distrazione d’abbiocco. Tutti gli altri, avrebbero dovuto rimanere dov’erano, già mezzi incapaci in mano alle perdute capacità di un regista tanto vuoto da creare imbarazzo. 2061 è un film imbarazzante, quasi più di Olè per certi aspetti, che almeno aveva Boldi e il suo ricercato contegno, Salemme e la sua (esageriamo) bravura; tuttavia completamente sprovvisto di una chiarezza dialettica e plottistica che è appunto l’ancora di salvataggio di 2061.
Voci dal profondo, tutti quegli elementi che erano gloria e che qui pesci morti in un Mar Nero velenoso, tra cgi orrende e product placement da angoscia: la neo-divisione d’Italia in territori ottocenteschi è la stessa pacioccona, goffa, fuori luogo del teaser, così come lo storpiamento dei nomi dei protagonisti a fine film e la Nutella fa addirittura da raccordo tra due scene, quasi angoscia, che tra quei costumi, scenari, volti e interpretazioni squarcia lo schermo quando i protagonisti paiono, per assurdità del reale, senzatetto razionanti un barattolo di crema di nocciola. Ciò è l’emblema del film: uomini e donne all’ultima spiaggia. «Oh seniur, se ne vuole andare al mare… Ma tu non sai nuotare!» dicevano Castellano e Pipolo ne Il ragazzo di campagna.
Sfiancante parlare di 2061 – mi piange il cuore:
La Fiat Multipla, che faceva le stesse veci di catorcio reinventato anche ne I figli degli uomini. Lo so, taccio.
Annamaria Barbera, la comica meglio dotata e peggio sfruttata.
Emilio Solfrizzi e Michele Placido, gli unici che recitano, e bene.
Dino Abbrescia combatte ed è dura.
Ancora Diego Abatantuono, stesse con Salvatores e Avati a fare capolavori invece di cercare di fare il Rolling Stones.
Un riferimento completamente campato per aria a Tarantino, terza volta di fila.

Fanculo, m’ha preso la malinconia. Procuratevi Yuppies, Vacanze in America, Sognando la California, I mitici, Selvaggi, Piedipiatti, Il ras del quartiere, Quello che le ragazze non dicono, La mandrakata o se volete rimanere nel presente ascoltatevi Un ciclone in famiglia 3 la domenica sera, anzi, andate a vedere il Cinema di Neri Parenti.

29 ottobre 2007

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