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e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

Sezione in riallestimento (spiacevole sbavatura), doverose scuse senza scusanti. Rimettiamettiamoci, per ora, alla vecchia (ma completa) versione
(è possibile che in alcuni casi sia necessario sostituire il dominio "com" con "it" nella barra degli indirizzi)
A cura di Alessandro Tavola

REGIA: David Slade
SCENEGGIATURA: Steve Niles, Stuart Beattie, Brian Nelson
CAST: Josh Hartnett, Melissa George, Danny Houston
ANNO: 2007

ARCHITETTO DI BEL AIR CERCA VECCHIA DIVA DEL NOIR

Hard candy (2005) era un capolavoro di cui non ci fu dato il piacere di vederlo nei cinema e, almeno per ora, in dvd, secondo le arcane regole della distribuzione. Peccato, perché si trattava di uno dei migliori thriller (para)passionali di questo decennio: vendicativo femmineo dalle tendenze androgine, venerazione misantropica, gioco sadico e casalingo esploratore della sterilità, ampia ma claustrofobica, degli spazi domestici, oggi come nei ’60 tendenti al vuoto (al loft) e modernamente soffocati dall’essenzialità chirurgica dell’arredamento, della tecnologia, della tendenza apersonale del neoyuppismo. Vicenda di pedofilia, di castrazione, di tortura, di rancore e follia che nella medi(t)azione cinematografica sublimano in mistero, tensione, iperviolenza psicosanguinolenta ch’allibisce e incanta e aggancia, assemblabile ai Giochi divertenti di Haneke e degno concubino di La morte e la fanciulla di Polanski, nonché spalla-a-spalla (o splat-a-splatter) con Alta tensione di Alexandre Aja, con cui aveva in comune non solo ricchezza e capacità (differenti), tra cui quelle di mettere il sangue al posto giusto e di saper (s)premere stacchi e fotografia senza mode e senza sdegnose modernità, ma anche il focalizzarsi su un volto weaveriano dai capelli corti, nell’annullamento/propulsione della sessualità, del rapporto vittima-carnefice così vorticoso, in Slade soprattutto, da poter determinare solamente un indeciso patteggiamento interiore per chi guarda. Se poi pensiamo a New born dei Muse nel suo totale di liriche e musiche, di cui Slade diresse il video e che Aja utilizzo al meglio proprio in Haute tension, il triangolo è completo e tremendamente nitido.
Questo perché quello di David Slade è uno sguardo affascinato e dedito alla paura, alle atmosfere, all’assuefazione del sintetico, moralmente digerito e elegantemente reso, e al superfluo, che nelle sue immagini è maleficamente annientato: la luce diurna investitrice di ogni cosa di Hard candy e la neve in cui galleggia ogni cosa in 30 giorni di buio hanno entrambe il colore del vuoto e il peso del piombo, sono soffocare vitale; una villa per un giorno e una città isolata per un mese differiscono quantitativamente, non qualitativamente.

Il fidarsi di Raimi e Tapert che negli ultimi anni aveva sempre fallito finalmente ha fatto centro.
Mezzo d’autore e mezzo anello di filone, 30 giorni di buio ha qualcosa che lo rende poeticamente moderno e al contempo modernamente poetico: il tris bianco-blu-rosso svia in parte le convezioni della manipolazione digitale di oggi, che recentemente ha dato il suo peggio con American gangster di Ridley Scott, utilizzandola nel rendere grazia, diritto e dovere, all’espressionismo d’oggi, proprio della fotografia come fu un tempo di trucchi e scenografie, negli anni ’90 tipico di Tim Burton (che si vede con Sweeney Todd a dover estremizzare il tutto fino a combaciare quasi completamente con le caratteristiche del cinema muto, bianco-nero-bordeaux) e ora proprio della generalità, del ritorno al bi(tri)colore. Protagonisti di 30 giorni sono infatti il rosso del sangue e il bianco, della neve e dei vampiri, ma non gli uomini: se è lo stesso Slade a declamare una voluta deromanticizzazione delle figure degli esseri immortali, le sue parole contraddicono in parte il suo operato artistico (e istintivo, a questo punto). Il candore è continuo tra gli ambienti e i loro visi, che paiono legittimamente legati nel rapporto individuo-luogo, desolazione interna ed esteriore, per sapore maledetto del “dimenticato da dio” di una città che per quattro settimane è isolata dal resto del mondo, per una specie che lo è sempre. Il sangue per riprese aeree schizzato sulla neve o colante dalle labbra è il medesimo pianto di questo status, di terre ed esseri maledetti, ripudiati, costretti. È la cittadina stessa a ribellarsi al suo isolamento, il romanticismo vampiresco non è abolito, ma esteso all’(apparente )inorganico di un manipolo di case nella desolazione dell’Alaska; la ricerca della liberazione impossibile e ridondante appartiene a loro, non agli uomini che nel surviving sono  prede la cui caratterizzazione è relativa, dalla visione di giustizia provinciale e conservatrice, ripresi e agenti secondo un taglio sì romeriano ma privo di vero pensiero mentre li vediamo giocare a giochi di società, regolare le loro questioni amorose, organizzarsi, combattere; e nessuno dei loro sguardi vale quello nerissimo e cosmicamente perso di Danny Houston, capobranco dei vampiri, così come il sacrificio di Hartnett appare eroicamente solo quando vampirizzato.
Se ormai è archiviabile il tipico confronto natura-tecnologia, che dall’impatto del fumetto amplifica il collidere di suddetti neve e uomini in nero dai morsi brutali con l’oliastro torpore meccanico-sociocostitutivo aranci(d)o color sole e sporco che non può non trovare uno dei suoi culmini in un enorme tritarifiuti giubilio del metallo lercio; David Slade nuovamente condensa crudeltà e vittimismo isterico come reazionari su un unico versante della parti in gioco: Jeff di Hard Candy era brandelli della dignità di un uomo senza alcuna lode, ridotto a corpo da torturare; i superstiti di 30 giorni di buio residui di una società qualsiasi, animali in gabbia, assediati senza colpa ma obbligati dalla diversità, ottima merce cinematografica per lo scorrere della violenza, dello schizzare di interiora e arti, del saltar di teste, delle tenaci e fantastiche colluttazioni unte tra l’appiccicoso (una fotografia che ciclicamente si autoinquina) e lo svelto (la nettezza di jump cut in momenti cinetici), di tutto un gore d’alto livello lontano sia dalla malerba che dal miracolo, ma degno di un 28 settimane dopo o un Le colline hanno gli occhi.

CONCLU-DIVAGA-ZIONE

Se l’amore e la limpidezza rappresentativa di carnefici androgini sono indubbiamente qui autorialità, vien per molti da domandarsi sul rapporto fumetto-film, su quanto vigano paternità, debito, omaggio, necessità sia produttiva che artistica. Non la solita palla oratoriana su sceneggiatura-film o alcuni altri ridicoli partiti presi sui remake: Fumetto e Cinema sono sì due discipline differenti, ma da sempre intersecate (e all’incirca coetanee), più che con le altre arti visive.
L’unica cosa è che è legittimo rubare. L’inventiva ruba. Tavole disegnate saccheggiano temi, caratteri, storie, congetture e filoni blockbuster (nel senso più letterale) in quanto del proprio presente e del proprio passato, di tutto l’attorno, alla ricerca di stimoli, di vita - che penso il foglio bianco a volte non possa dare - così come l’istituzionalità fece sì che Welles o Brass spesso, dichiaratamente, fecero della libertà rappresentativa delle vignette il punto d’origine del loro inquadrare allo stesso modo in cui poi le riprese amatoriali (ri)scossero il discorso del pdv. Ci si da una mano.
Ma adesso che tutto questo s’è fatto diretto ed esplicito fino a rendere inquadrature quasi meramente vignette animate andando spudoratamente oltre il doveroso richiamo alle atmosfere che avevano Dick Tracy di Warren Beatty o il goffo montaggio di Hulk di Ang Lee? Sin City lo declamò entusiasta, sperimentazione imperfetta dell’intuizione del cinema digital-retrò, eclettismo di Robert Rodriguez. Si trattò, tra scultura e pittura, di un affresco raffigurante una statua. 300 seguitò, tra il ridicolo e il maestoso, insapore e senza amore, fino a dimenticarsi la temporalità che un disegno non può avere. E la Frank Miller Fever continua, male e bene, tra le diverse intensità (Il Cavaliere Oscuro).
30 giorni di buio attinge dal lavoro di Niles e Templesmith a volte cadendo anche lui nel superfluo e nel ricalco, e a vista di questo grosso rischio-inchino produttivo rimane ottimo. Ma se il Cinema, l’unico capace di contenere quasi ogni elemento, di (s)comporre e comporsi in qualsiasi vitale, mortale, sintetico che sia al di fuori della parola pura finisce con l’essere sopraffatto? Un rischio ben più grave dell’home entertainment che ora, anzi, sta raggiungendo una dignità prossima al paragone con la sala cinematografica, con tv meno “visori” e più “schermi”. L’abuso dell’amplesso pubblico tra pagina e telo bianco finisce col fare la stessa fine del bullet time wachowskiano (o di tutto ciò da e su Jane Austen): perdere, dopo la capacità indurre stupore, anche la qualità, senza però riuscire a integrarsi come invece ha fatto la cgi. E se tutto va veloce come va, questa fine è già in preproduzione. Concretamente immagino sì la morte di un certo Cinema, ma al contempo vedo il rifiorirne di un altro: due anni fa Match point (un capolavoro) vide i 10.000 milioni in Italia, oggi American gangster (un noioso) fa lo stesso nel mentre in cui Sean Penn gode del passaparola quanto fece Le vite degli altri. Due buoni e due cattivi, che con il pirotecnico centrano veramente poco, uno e uno dei quali realizzati da settantenni. Pare siano le generazioni intermedie a rovinarsi addosso.
Probabilmente a breve fotografia e renderizzazione non varranno più nulla, personaggi torneranno alla ribalta e il montaggio perpetuerà il suo essere valore maggiore.

Ma tra profezie e analisi il discorso è troppo ampio e incontrollabilmente imputabile.
30 giorni di buio vale? Sì. Senza pensarci tre volte.

21 febbraio 2008

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