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CRONACHE DA VENEZIA 2011

Sezione in riallestimento (spiacevole sbavatura), doverose scuse senza scusanti. Rimettiamettiamoci, per ora, alla vecchia (ma completa) versione
(è possibile che in alcuni casi sia necessario sostituire il dominio "com" con "it" nella barra degli indirizzi)
A cura di Pierre Hombrebueno

REGIA: Gus Van Sant
SCENEGGIATURA: Gus Van Sant
CAST: Gabe Nevins, Jake Miller, Daniel Liu
ANNO: 2007

EVOCAZIONE POETICA AL MASSIMO GRADO

A prima vista, Paranoid Park sembrerebbe avere il suo fulcro narrativo nell’evento centrale, l’uccisione colposa di un agente da parte di un giovane skater, ma in verità ciò non è affatto la partenza principale dello svolgersi messa-in-scenico, in quanto Van Sant preferisce concentrarsi sui bordi, rimanendo (e circumnavigando) nei contorni evocativi e psicologici di un anomalo ritratto, che parte da un teen-ager per poi espandersi in una Visione del mondo.
Come in Elephant e in Last days, la violenza che sfocia nella morte è solo un punto climatico, perché l’occhio di Van Sant si focalizza sulle sfumature, su un’osservazione sospesa tra la pedagogia (mai espressa esplicitamente) e la poesia della costruzione cinematografica. Ma chiariamoci con parole più semplici: ciò che vogliamo dire è che Paranoid park non è prettamente Cinema narrativo, in quanto non è importante il thrilling di cui dispone il plot (la messa in scena non si occupa di creare i meccanismi di un genere suspense, nonostante questo elemento non manchi), ma il dipingere uno sguardo ampio sulle difficoltà dell’età adolescenziale, gli stessi adolescenti di cui da sempre Van Sant si occupa.
Eppure in Paranoid Park giungiamo a quello che è probabilmente l’apice della cinematograficità dell’autore, che qui abbandona la classicità stilistica che potrebbe essere dei Will Hunting o dei Finding Forrester (i quali, guardacaso, sono proprio i film più brutti della filmografia del regista, in quanto canonizzati per Hollywood e censuranti di una poetica ed una genialità assai oltre) per abbandonarsi alla totale evocazione dell’audio-visivo. Più di Elephant e Last Days messi insieme, in Paranoid Park l’anarchia espressiva raggiunge la sua massima vetta, a cominciare dall’uso del sonoro anti-diegetico, che mischia spazi temporali diversi, ricordi, diari in voce off, echi, immaginazioni, perforazioni uditive, mentre scorrono le immagini ormai slegate da una qualsivoglia linearità, in un continuo avanti ed indietro, saltare e tornare, togliere ed inserire, provocando così due cuciture inscindibili: la deframmentazione di una mente posta in crisi (il protagonista), e la deframmentazione del Cinema stesso (il “vero” protagonista). Mai come in quest’opera Van Sant ha raggiunto una così elevata espressività enfatica, come sottolineano i bellissimi piani-sequenza sui trampolini, dove la macchina da presa riesce a infiltrarsi come un ectoplasma dentro e fuori gli skate-board, dimostrando palesemente che dietro questa messa in scena, che inizialmente potrebbe puzzare anche di “arty a tutti i costi”, si celi invece anche una grande abilità nella gestione dello spazio, capacità di posizionare la macchina da presa e di muoverla in contesti inimmaginabilmente e sperimentalmente difficili: Van Sant, effettivamente, estranea un semplice giro in skate-board trasformando la scena in un trip quasi onirico, dove la potenza delle immagini e della musica utilizzata ricrea immediatamente un pathos quasi toccante che trasuda passionalità fantasmatica. E’ il sogno che si manifesta, l’euforia o la narcotizzazione che una disciplina come lo skate suscita in questi ragazzi non più bambini ma non ancora uomini, dunque sospesi in quel limbo che sta tra fantasia e realtà dura e cruda; necessariamente, nel film si crea proprio questo dualismo, la vita e il sogno. Vita che la macchina da presa coglie con i suoi lievissimi movimenti, che sfociano in un primo piano silenzioso ed inquietante, ricolmo di quella paura percepibile (la scena dell’interrogatorio con il detective mandato a scuola), per non parlare del magnifico momento della doccia, semplice quanto un piano fisso, ma carico di un’evocazione puramente estetica e pittorica, ma anche di un senso altamente tragico in quanto simbolo di un tentativo di purificarsi e di ripulirsi dal peccato appena commesso. E poi, il sogno, che come segmenti paralleli, invadono sempre il campo della realtà, con inserti casalingamente documentaristici di spensieratezza fra i ragazzi, pronti ad apparire come piccoli sintagmi di ormai nient’altro che una trasfigurazione esistita ma ormai lontana: il sogno viene pesantemente sommerso dal dramma. Gli inserti sono in realtà flash back di un passato che non potrà mai cambiare il presente, anche se di un presente sospeso si tratta, tantochè Van Sant non termina nemmeno la storia (o almeno, non come tutti vorrebbero), fatto che prova ancora una volta la sua intenzione formale/evocativa piuttosto che narrativa/etica. Non giudica il suo protagonista così come non giudicava gli assassini di Elephant, il messaggio e la significazione diventano nient’altro che una grande Lezione di Cinema, di un grande schermo che ritorna ad arricchirsi di audio-visività empatica, capace di dare il suo senso non per parole o per fatti/accadimenti, ma per la creazione di immagini così belle e ricche di significati propri che varranno tanto e tanto più di qualsiasi moralità dettata.
Van Sant, dunque, critica proprio mantenendo il silenzio. Perché tale silenzio, linguaggio muto (di un Cinema di immagini e suoni/musica persi nella loro esistenza senza direzioni), ha la potenza reazionaria di un urlo implicito e trattenuto.
Anche senza giudizi morali, veniamo esposti ad una Visione del mondo che è automaticamente valutazione sintomatica.
Forse è anche per questo che Paranoid Park, oltre ad essere continua stimolazione per gli occhi e le orecchie, è pure fottutamente commovente.

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12 dicembre 2007

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