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e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

Sezione in riallestimento (spiacevole sbavatura), doverose scuse senza scusanti. Rimettiamettiamoci, per ora, alla vecchia (ma completa) versione
(è possibile che in alcuni casi sia necessario sostituire il dominio "com" con "it" nella barra degli indirizzi)
A cura di Luca Lombardini

REGIA: Steven Soderbergh
SCENEGGIATURA: Paul Attanasio
CAST: George Clooney, Cate Blanchett, Tobey Maguire
ANNO: 2006
T.O: The Good German

DOV’E’ EMILE BRANDT?

E’ quello che si chiedono in molti, perché in molti lo stanno cercando. Primo tra tutti il corrispondente di guerra americano che si fa spedire nell’amata/odiata Berlino per ritrovare l’affascinante Lola, poi il caporale/autista Tully, faccia da bravo ragazzo cresciuto tra le villette a schiera del Midwest, che invece si rivela un laido intrallazzatore, anch’esso intenzionato a stanare il celebre scienziato dal suo nascondiglio al fine di utilizzarlo come lasciapassare per fuggire oltremanica. Ma più di ogni altro se lo contendono le alte autorità russe e americane di stanza nella capitale tedesca, intenzionate a siglare un trattato di pace che tutto sembra tranne che duraturo. Già: dov’è Emile Brandt? Alcune volte può capitare che l’allievo superi il maestro o, come in questo caso, che l’attore superi il regista. Con The Good German infatti, Steven Soderbergh ha tentato di ripercorrere il sentiero stilistico battente bandiera retrò tracciato dal suo attore feticcio con Good Night and Good Luck. Le intenzioni del cineasta che si rivelò a Cannes con Sesso, bugie e videotape sono fin troppo esplicite già a partire dalla locandina, che replica con fare omaggiante il manifesto di Casablanca. Parimenti evidenti d’altronde, sono i modelli di ispirazione cinematografica, con Curtiz che si trasforma ben presto in faro nella notte, mentre qua e là giungono i richiami ai vari Notorious, Intrigo internazionale e Il terzo uomo. Soderbergh imposta l’intera struttura delle pellicola facendo ricorso ad un severissimo decalogo di regole imponenti una sorta di “castità” tecnica: nessuna traccia della computer grafica, sequenze che si aprono e si chiudono come pagine di un romanzo, lenti fisse, fotografia in bianco e nero, rinuncia alla steadycam, primi piani rari come l’acqua nel deserto, innesti posticci dei documentari berlinesi diretti da Wilder e Wyler a secondo conflitto mondiale appena concluso; nulla insomma, che non potesse essere usato all’epoca della nascita delle opere utilizzate dal cineasta come punto di riferimento. Quel macro genere chiamato noir poi, aleggia come un fantasma in ogni singola scena, dove non mancano mai di presenziare sigarette artigianali, clima mistery, doppio gioco e latente corruzione d’animo. L’unica distanza “morale” nei confronti della Hollywood classica è rintracciabile unicamente nella stesura dei dialoghi e in alcune allusioni sessuali figlie del 2007, anno in cui il rigido Codice Hays è, per fortuna, un simpatico ricordo storico buono solo per capitoli ad esso dedicati sui volumi di storia e critica del cinema; Soderbergh lo sa, e lascia che un po’ di umano turpiloquio e qualche sano coito si intravedano tra le pieghe del racconto. Ma se l’involucro tecnico e visivo non può non essere apprezzato, Intrigo a Berlino si dimostra in primo luogo inadatto nell’affrontare concetti complessi come l’immoralità presunta dell’umano essere, e secondariamente lacunoso quando si vede costretto a lasciare totale libertà espressiva ai suoi attori. Se la Blanchett porta a casa la pagnotta nel ruolo della donna fatale, nonostante il doppiaggio italiano istighi la lapidazione in piazza, Clooney, che in Good Night and Good Luck si ritagliò con successo un ruolo di secondo piano, si fa ingolosire dalla parte del protagonista, lasciando intravedere tutte le pecche di fondo di un attore di scuola televisiva, che non riesce mai ad essere convincente quando deve fare i conti con una recitazione tutta incentrata sul metodo espressivo tipico del teatro. Come se non bastasse, The Good German si perde in un intreccio a dir poco cavilloso, che più che coinvolgere costringe chi guarda a consultare ripetutamente l’orologio; i meccanismi e la suspense tipici di quel grande cinema che fu non girano mai come dovrebbero, e il dipanarsi dell’intreccio si trasforma ben presto in un’agonia lunga un’ora e 47 minuti. Con Intrigo a Berlino Soderbergh non solo rischia di dare ragione a chi lo accusa di presunzione e di poca chiarezza all’interno di un percorso autoriale (anche se a guardare le sue prove dietro la cinepresa il termine appare sinceramente esagerato), ma finisce addirittura per perdere l’ipotetico duello qualitativo con l’amico/collega Clooney, dirigendo una pellicola che più che omaggiare la Hollywood dello Studio System, si rivela esclusivamente per quello che è: un algido esercizio di stile vuoto e superficiale.

04 febbraio 2007

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