A dangerous method è il culmine di un processo messo in atto da David Cronenberg negli ultimi dieci anni. L'autore ha deciso di annullarsi, di lavorare nascostamente, per levigare e rendere uno Zero la sua presenza, se non per il sottile ineluttabile suo morso, che talvolta affiora, nelle parole tutte economiche per la narrazione, in un taglio al viso, nella plasticità di semplici sculacciate. Suona sporco per effetto contrario ritrovare tracce di Cronenberg in parole, ferite e il più banale dei giochi sadomaso, ma, come per Carnage di Roman Polanski, dove ci si sarebbe potuti imbrattare ci si ritrova - con maggior sopresa/«vaffanculo» - lindi, spiazzati dall'assenza. Ché con History of violence e La promessa dell'assassino il compromesso e il dimostrar(si)e di saper essere diverso da sè (non un altro sè ulteriore, ma proprio la non-presenza) ibridavano un processo di vecchio e nuovo, di autorialità spinta ed assoluta assieme ad un senso del dovere verso la narratività, la pacatezza, la calma. Il risultato è stantio: quello di una perfezione inutile, di corpi scavatissimi nei chiaroscuri ed imbottigliati nei loro costumi, di inquadrature impeccabili (rap)prese in una per nulla nascosta ricerca della posa pura e semplice, da rivista. Tutto è organizzato per sembrare quello che non è: la storia di pulsioni, spirito agonistico, di sfida, di passione, di sporcizia. Pulito vestito da sporco, o viceversa che sia, rimane una scultoreità senza goffaggine, e l'eco lontano del regista che fu, e che forse sta soltanto riodinando(si) prima di tornare, o di tornare in banca.
E la verità supposta suddetta, ammaliante per quanto funerea, è annullata nel processo maggiormente breve di Jean-Marc Vallée: se The young Victoria l'ha seppellito sotto tonnellate di terra a causa della sua inappellabile empietà, Cafè de Flore lo scaraventa diretto in qualche olimpo non meglio definito. La significazione del suo film - soprattutto per quanto riguarda il montaggio, firmato da lui solo - è essere trascinati per i capelli, per poi finire sotto un alternarsi di acqua calda e fredda: se, come Madonna con W.E., mixa passato e presente, il movente è nascosto, fino a riaffiorare oscuro, disgustoso ammaliante, stupefacente. C'è da esaltarsi anche solamente per come Vallée ci fa ballare tra il new wave e le discoteche, tra la Parigi degli anni sessanta e la storia di un ragazzino down, senza mai anteporre l'acido all'agrodolce, il dramma dell'adesso e il melò di ieri; accavallandoli, avvicinandoli, svuotandoli per farli incastrare, per farli stringere nell'immagine (gelida, colorata, fuori fuoco) che non ammette quiete, con le tinte che sono quelle di un cocktail che sembra di non avere niente di naturale dentro. Ed è infatti la banalità - del presente, del passato, dell'amore, dell'handicap, della musica (Pink Floyd e Cure e Nine Inch Nails onnipresenti ma mai sputtanati) - che viene fatta a pezzetti dal regista fino a rendersi irriconoscibile, frullata in Cinema.
Ma lasciamo gli autori, che abbiam visto due modeste opere genealogiche, avvinghiate al passato, al classico, figlie della codificazione e della voglia di non allontanarvisi: Le Petit Poucet di Marina de Van, che sporca gli ambienti ma pulisce i visi alla fiaba di Pollicino, e The sorcerer and the White Snake di Tony Cheng Siu-tung.
Opere a tratti catartiche per il nervosismo continuo cui sottone di solito il Lido, a causa del loro fanciullesco muoversi solo verso i patti chiari del perché e del per come di tanto Cinema più vicino allo spirito monetario che cerebral-masturbatorio. E ci fa da collirio, con gli occhi per la prima volta rilassati, stesi ad assorbire le radiazioni del già-visto.
La de Van poeticizza il cannibalismo, e ci fa passare quasi un quarto d'ora dentro la pancia di Denis Lavant - e questo è sufficiente a stimolare un inchino da parte nostra. Tony Cheng ha comprato i fascicoli del "wuxia/fantasy for dummies" e li ha imparati a memoria, con tanto di Jet Li a fare da manichino.
Domani col quasi il doppio di visioni e melodie mortali.
In Aronofsky we trust.