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e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

Sezione in riallestimento (spiacevole sbavatura), doverose scuse senza scusanti. Rimettiamettiamoci, per ora, alla vecchia (ma completa) versione
(è possibile che in alcuni casi sia necessario sostituire il dominio "com" con "it" nella barra degli indirizzi)
A cura di Pierre Hombrebueno

REGIA: Clint Eastwood
SCENEGGIATURA: Athony Peckham
CAST: Morgan Freeman, Matt Damon, Tony Kgoroge
ANNO: 2009

WE CAN BUILD A NEW TOMORROW, TODAY

Sfidiamo i lettori a trovarci un autore più coerente di Clint Eastwood nel Cinema di oggi, così cristallino nel mostrarci il proprio percorso (personale e artistico) senza brogli, lucido e trasparente come nessun altro. Invictus è nato ora perché doveva nascere solamente ora, in questo frangente della carriera di Eastwood, per il semplice motivo che non avrebbe avuto senso parlare di perdono 15 anni fa, quando con Gli spietati (il cui titolo originale, Unforgiven, significa proprio “Non perdonato”) William Munny trovava nella vendetta l’unica via per la catarsi e la rinascita. Anni lontani, attraversati da un percorso e una riflessione spirituale che passa dal pessimismo shakespeariano di Mystic River fino al definitivo voltapagina con Gran Torino, la purificazione in cui convergono tutti i fantasmi eastwoodiani finalmente esorcizzati, lavati, rinnovati sotto la luce di un nuovo domani, un futuro a cui stavolta Eastwood sembra voler guardare con saggia serenità, alla soglia dei suoi 80 anni. Walt Kowalski scopre quindi il valore del sacrificio, morendo folgorato in un’immagine cristologica, e che in questo Invictus ha il suo continuo più necessario nel sublime mistificare, parlare finalmente di perdono. Clint Eastwood, allora, sta diventando un nuovo Gesù Cristo, avviandosi verso la beatificazione dopo le precedenti passioni (tutte carnali e fisiche): il suo Cinema è la fine di un’eclisse che sta finalmente rivelando il sole pian pianino, ecco perché in quest’opera la fotografia di Tom Stern si apre finalmente ai colori chiari, a cromatiche abbaglianti, lasciando dietro di sé il gioco di ombre che tanto avevano caratterizzato il precedente Cinema del nostro Autore.
Come già col dittico Flags of our fathers / Letters from Iwo Jima, Eastwood indaga l’unione e non più la diversità (e d’altronde così ha fatto anche nel rapporto tra il veterano Kowalski e i suoi vicini di casa asiatici), penetra in entrambe le fazioni (Nelson Mandela e François Pienaar) per unificare le divergenze, in un (fare) Cinema sempre più globale, capace finalmente di trovare negl’occhi dell’altro gli stessi valori e le stesse paure, le medesime speranze. Eastwood ha la bellezza e il fascino che solamente l’età della consapevolezza può avere, gli anni dell’esperienza e della saggezza che sono gli stessi che vediamo ricamati sul viso di Mandela / Morgan Freeman. Ecco perché la scena più bella e suggestiva del film è quella della visita di François nella cella del neo-presidente: è in quell’istante che si compie la metempsicosi, l’unirsi di due corpi e due spiriti in un’unica entità (e valore, cuore), mostratoci meravigliosamente da Eastwood attraverso un’espediente così evanescente e retrò come la sovrimpressione. Ancora una volta, l’autore de I ponti di Madison County è fuori tempo massimo, perché nessun altro regista americano mainstream usa più la sovrimpressione, quest’arma cinematografica così caratterizzante di certo Cinema impressionista, eppure, più che mai, non riusciamo ad immaginarci un modo più efficiente per sottolineare la simbiosi, l’unione, la spiritualità. Eastwood non è mai stato un moralista, per questo il suo Cinema grida autenticità e si cosparge di tante immagini capaci di congiungere tutti i suoi personaggi sotto un’unica poetica mai statica ma in continua fibrillazione, sviluppo. Non conosciamo lo sceneggiatore Anthony Peckham e siamo troppo pigri per fare 2 ricerche su Imdb, ma è ormai chiaro quanto poco conti lo script in un film di Eastwood: lui è capace di appropriarsi di qualsiasi storia, personalizzandola e rendendola necessaria al proprio percorso. A parlare per lui, come tracce chiare di un’autorialità, sono le inquadrature e i suoi tempi, le sue immagini ricorrenti: il protagonista che si sveglia al buio, accompagnato da lievi note che sanno di pioggia (e quindi, di filmicità) / un volto pensieroso che guarda attraverso le vetrate di una finestra / un’espressione del viso che osserva senza controcampo, perché un primo piano che contempla il fuori quadro scava nell’anima più di qualsiasi altra alternativa / di padri con figlie assenti, di figli senza padri. Attimi e suggestioni che ritornano qui, in Invictus, che, con buona pace della critica più idiota, si rivela ancora una volta totale, pezzo imprescindibile di un puzzle sempre più bello e completo, umano. Invictus è trasparente, magico perché impossibile, impossibile perché utopico, utopico e quindi sogno, sogno e quindi Cinema, Cinema e quindi idea, idea ovvero Vita, Vita che è Mondo.

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09 marzo 2010

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