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CRONACHE DA VENEZIA 2011

Sezione in riallestimento (spiacevole sbavatura), doverose scuse senza scusanti. Rimettiamettiamoci, per ora, alla vecchia (ma completa) versione
(è possibile che in alcuni casi sia necessario sostituire il dominio "com" con "it" nella barra degli indirizzi)
A cura di Pierre Hombrebueno

REGIA: Sam Mendes
CAST: Jack Gyllenhaal, Jamie Foxx, Peter Sarsgaard
SCENEGGIATURA: William Broyles Jr.
ANNO: 2005

VITA E MORTE DI SAM MENDES

Amavo Sam Mendes alla follia. Così amabile (bisognava amare Sam Mendes) così lucido e (anche se molti ancora lo negano) così fottutamente personale nel mostrarci un’America si patinata (oscuramente patinata, grazie alla fotografia di Conrad L.Hall, morto l’anno di Era mio padre), ma così elegantemente noir e inversamente in decadenza di valori che scorrono a retro. American Beauty è la folgorazione dell’esordio al lungometraggio cinematografico, tra i film migliori degl’anni 90’, un classico ritinto di (in)valori attualizzati, come un lungo squarcio gelido e alienante, depresso seppur carico di quella tenerezza della solitudine che pochi registi americani della nuovissima generazione avevano saputo mostrare sullo schermo. Poi seguì Era mio padre, un viaggio nell’America di Al Capone che sembra irrimediabilmente unire Howard Hawks a Clint Eastwood, non solo per quella fattura così incenerita e carbonizzata, per quei duelli che sembrano tanto una resa dei conti (sia col tradimento indiretto che diretto) tra pelle carne e sangue western, film di sacrificio e anche stavolta, di valori oscurati dalla vita (dura): questione di scelte e di etica, potremmo in fondo affermare.
In questa new Hollywood della new Hollywood Sam Mendes non poteva che conquistarsi un posto nell’Olimpo (con le varie divergenze, è ovvio), e con trepidanza aspettavamo (in gergo potremmo dire: attendevamo col cazzo in mano) questo Jarhead, in qualche modo il completamento di questa specie di trilogia sull’America dai valori decaduti, e quale miglior occasione da cogliere se non la guerra per il petrolio che tanto ha destato scandalo e scalpore, un film bellico quindi, di militari (in questo caso: marines) dalla testa rapata (e dalla forma di queste teste deriva il senso del titolo) che sembrano delle “scodelle vuote”. E la percezione è che le teste di questi marines mostratoci siano veramente scodelle vuote, prive di riflessione e di consumo. O forse (anzi: sicuramente), e questa è dura da ammettere, è la testa di Sam Mendes che si è trasformata in una scodella vuota, cancellando di fatto ogni nostro rispetto ed affetto nei suoi confronti, perché Mendes cancella sé stesso, non solo togliendosi dalla propria mano registica tutto ciò che lo distingueva da ogni comune e qualunque regista giovincello hollywoodiano, ma anche cambiando completamente rotta dal classico al post-moderno inteso nel senso più cool del termine, svuotando di fatto la significazione riflessiva e riflettente del suo Cinema. Difficile, a primo occhio, credere che dietro questa spazzatura di film ci sia proprio la stessa mano del realizzatore di American Beauty ed Era mio padre, anche se eravamo stati avvertiti da quel trailer che sparava musica simpatizzante hip-hop e frasi ad effetto come “Benedico ogni giorno che sto nei marines” pronunciata da un Jamie Foxx, che passata la mimica metempsicotica di Ray, si dilegua nel gigioneggiare in mezzo al deserto.
Per non subire lo stesso trattamento (iper-torturante, ammettiamo) che abbiamo subito, bisognerebbe dunque dimenticare tutto ciò che Mendes ha fatto in questo passato prossimo, fingere che sia la prima volta che lo vediamo sugli schermi, in quanto il proprio topoi (amabilissimo) del Cinema mendesiano è completamente inesistente in Jarhead.
In primis la meditazione, corredata da piani fissi per imprimere la riflessione (o (in)volontariamente il ritratto) dei personaggi, o meglio, del personaggio fulcro che ritagliava perfettamente un proprio spazio nel racconto corale, diventando di fatto corpo sangue e ossa che irrimediabilmente rispecchiava non tanto uno stereotipo della società, bensì la nullità di questa società, in un’indagine per la ricerca del riscatto. Il Kevin Spacey di American Beauty o il Tom Hanks di Era mio padre, che giunti ad un punto cruciale della loro vita, ne cambiano totalmente la direzione, in un tentato ricerca di assoluzione o perdizione; la critica velata di silenzio sussiste proprio in questi tentativi di riscatto, in questa scelta di condanna, di malattia che si riflette negl’occhi del proprio contorno sociale. In Jarhead invece, non c’è nulla di introspettivo, forse perché alla storia (quella di Jack Gyllenhaal), Mendes preferisce far parlare le storie, provando a delinearci la collettiva dei marines in un tentativo di sguardo corale e generalizzante a questo elite. Però questi marines vengono privati della loro personalità, del loro modo di pensare e d’intendere la vita, delle loro ideologie sul mondo (indirettamente la risposta c’arriva proprio da uno dei personaggi, che sussurra: “Noi siamo qui, ed è questa l’unica cosa importante”). Abbiamo dunque un raffreddamento di sensi e di sensazioni, che non ci permette di amare nessuna di queste anime vaganti, in quanto non c’è un minimo intreccio con l’apparato emotivo dello spettatore. Sono caratterizzazioni così piatte e lineari, prive di un cambiamento o di un’evoluzione (o retro-evoluzione), dove la guerra non è che un intermezzo nel nulla, un intervallo tra 2 tempi dalla stessa polarità psicologica. Tantochè vedremo pochissimo sangue nell’opera (perlopiù scorreranno invece le nuvole di fumo di petrolio bruciante rifatto a pc grazie alla Industrial light and magic di Lucas), e loro, i marines, incazzatelli in quanto non hanno ammazzato nessuno, malinconici perché non hanno visto la guerra che volevano. Si torna a casa tra un funerale e un paio di corna, con l’indifferenza sotto mano. E Jake Gyllenhaal, che è arrivato in Iraq senza uno scopo nella vita, se ne torna negli States nello stesso modo.
In modo ambiguamente pericoloso, Mendes spettacolarizza la guerra, e in questo senso è emblematica la scena dove i soldati, guardando sul grande schermo Apocalypse now di Coppola, siano completamente esaltati dall’arrivo degl’elicotteri per lo sterminio dei vietcong e dei civili. Indirettamente, forse, Mendes arriva ancora una volta a mostrarci un’America malata, ma fatto in un modo così distaccato e privo d’interiorizzazione che la sua operazione si riduce ad una pura esibizione di coolness, tantochè la colonna sonora ci bombarda continuamente di quella musica rappo-ganstà fastidiosa all’inverosimile, come se la guerra sia un’esibizione tra big boys, in un procedere simil vagamente Tarantiniano, fino alla scena  dove i soldati arrivano con un’immagine dissolta nel deserto come fossero i RunDmc pronti a fare una gara rap con gl’arabi in cammello.
Una volta, Francois Truffaut disse che è impossibile girare un film di guerra pacifista, in quanto mostrarlo al Cinema equivarrebbe, implicitamente o esplicitamente, a spettacolarizzarlo e a renderlo appetibile. E Jarhead ottiene proprio questo effetto perché tinto di insensibilità dall’inizio alla fine, senza una chiave d’approccio investigativa o introspettiva nella mente di questi marines spediti al fronte e rispediti indietro senza volontariamente un come e un perché. Una messa in scena impersonale e comune a diversi action movies che girano tranquillamente per i multiplex per un sabato sera in compagnia, tra macchine a mano e un qualcosa che un tempo si usava chiamare dinamismo(?).
Ripercorrendo all’inverso la (breve) filmografia di Mendes, ricordiamo con particolare affetto e amore la scena del ragazzo che riprende un sacchetto vagante in American Beauty, esponendoci l’illimitatezza del mondo nel suo essere assoluto e totale. Ma Mendes sembra aver perso questo amore per la scoperta e per il pensiero, mostrandoci dei soldati robotizzati e macchinizzati, ma non per una trauma a causa della guerra, ma perché erano così fin dal principio. Soldatini di legno, appunto. E non si può rimanere né turbati né interessati nel vedere soldatini di legno brucianti o pseudo brucianti.
Per la bruttezza del film, persino gl’omaggi cinefili (l’inizio uguale a Full Metal Jacket, passando per Il Cacciatore o Lawrence d’arabia) assumono un effetto dissacrato, fastidioso perché immeritevoli di essere inseriti o accennati in un’opera di così bassa capacità comunicativa come questo Jarhead.

23 febbraio 2006

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