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CRONACHE DA VENEZIA 2011

A cura di Luca Lombardini

COSE SEMPLICI E GENIALI:

<<Noui consilia et ueteres qauecumque

monetis amici: < >.

Sed quis custodiet ipsos custodies?

cauta est et ab illis incipit uxor.>>

(Giovenale, VI Satira, “Contro le donne”)


I 12 albi che tra il Settembre del 1986 e l’Agosto del 1987 fecero conoscere al mondo il romanzo illustrato Watchmen, rappresentano la struttura ossea della creatura più affascinante e metaforicamente labirintica mai evasa dalla stregonesca immaginazione di Alan Moore. Non una “comune” graphic novel, bensì un’opera spartiacque: prodigio su carta capace, attraverso il suo esorbitante peso artistico e politico, di decretare un’epoca pre e post Watchmen. Nel dedicare per la prima volta mani e mente al progetto, Moore partì dall’insolito connubio tra una citazione classica e un’idea tanto semplice quanto geniale. L’interrogativa “who watches the watchmen?”, vero e proprio filo d’Arianna della vicenda, corrisponde alla traduzione inglese di “quis custodiet ipsos custodies?”, estratto preso in prestito dalla produzione satirica di Giovenale, poeta attivo durante l’età dei Flavi e di Traiano in grado, con i suoi scritti, di mettere a nudo, schernendoli, i vizi della contemporanea società romana. Da questa operazione di recupero e rielaborazione nei confronti della tradizione latina scintilla la miccia che darà il via alla decostruzione dell’archetipo dell’eroe senza macchia, antico retaggio della gloriosa golden age del fumetto. L’obiettivo principale di Watchmen consiste nello smascherare da qualsiasi tipo di camuffamento la figura psicologica del supereroe, osservandolo da un fino ad allora sconosciuto angolo prospettico, utile a mostrarne difetti, complicazioni etiche e difficoltà relazionali. Il lettore, per la prima volta nella storia della nona arte, si ritrova a dover familiarizzare con comuni mestieranti privi di una qualità specifica; esponenti di una working class hero sprovvista di sindacato che hanno semplicemente deciso di intraprendere la professione. Nessuno dei protagonisti, eccezion fatta per il Dottor Manhattan, è in possesso di alcun superpotere e i costumi stessi, variopinti e ingombranti, danno l’impressione di essere esclusivamente un alambicco più che altro folkloristico. Un canovaccio realistico e antivenerativo arricchito da un’altra, decisiva, sfumatura: quella relativa alla sostituzione del supereroe con la figura del vigilante notturno, membro di un ordine ai limiti della massoneria (il Gufo), che si assume personalmente rischi e responsabilità riguardanti la protezione della comunità. Una allegoria sotto la cui maschera si nasconde l’anarchica volontà dell’autore di scagliarsi contro stato e polizia, attraverso la teoria del potere di Max Weber.  Secondo il sociologo, infatti, l’autorità viene solo accettata da chi non la possiede, tollerata esclusivamente perché protesi dell’istituzione e necessità del vivere civile. Per suggerire ciò Moore utilizza l’escamotage del Decreto Keene, la cui emanazione dichiara fuorilegge l’attività del sorvegliante lasciandola in pasto a dibattiti pubblici e mediatici, che sfoceranno tragicamente nel gratuito assassinio del pensionato Hollis Mason, primo Gufo Notturno divenuto, suo malgrado, rappresentate di un gruppo di canaglie potenzialmente pericolose. Lo sfondo resta quello di New York, ma bastano poche pagine per intuire come in questa grande mela parallela non ci sia spazio per cittadini devoti ai propri beniamini in maschera. Moore, naturalmente, ci mette del suo: presentando il personaggio di Rorschach come un presunto omicida appassionato di letture di estrema destra (la rivista The New Frontiersman alla quale affiderà persino il suo diario), capace di sminuire le violente attitudini del suo collega il Comico come banali “lapsus morali”, mentre il Dottor Manhattan è un elemento radioattivo, la cui presenza sarebbe addirittura causa di tumore per chi gli sta vicino. Senza dimenticare Adrian Veidt, figura trasversale a metà tra eroe e antagonista che si autodefinisce <Stan Lee e Sam Raimi, dove i newyorkesi finivano addirittura per fare da scudo umano ad uno SpiderMan in difficoltà. La rivoluzione, insomma, è definitivamente compiuta. 


BERTOLD BRECHT MEETS WILLIAM BLAKE:

<

Nelle foreste della notte,

Quale fu l’immortale mano o l’occhio

Ch’ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?>>

(William Blake, Songs of experience, “La Tigre”)


Se lo script di Moore prende ben presto le distanze dalle consuetudini del fumetto, il taglio visivo impresso a Watchmen dal connazionale Dave Gibbons procede sulla carreggiata opposta a quella del compagno d’avventura. Il disegnatore, cresciuto con il mito di Norman Rockwell e Jack Kirby, vincola l’alternarsi degli eventi all’interno di una griglia 3x3, comunque libera dal matematico totale dei nove inserti per tavola, ma sempre ordinata nel rispettare i margini durante il dosaggio dei colori, solo e sempre primari, scelti per l’occasione da Jack Higgis. Così facendo Gibbons ripristina lo schema scomposto da Will Eisner attraverso i primi episodi di The Spirit e si riallaccia alla tradizione del medium, slegandosi totalmente dalle convenzioni di metà anni ’80, attraverso l’adozione di uno stile grafico molto più vicino ad un story board cinematografico che al corrente linguaggio della graphic novel. Le inquadrature, decentrate rispetto all’asse dei personaggi, relegano le figure in posizioni “di quinta”, per concentrarsi sull’ambiente e sui dettagli esterni. Questo procedimento permette ad alcuni simboli chiave dell’opera, come il celebre smile insanguinato o la citazione di Giovenale “graffittata” sui muri, di guadagnare visibilità, peso e risalto agli occhi di chi legge. Non solo, spesso e volentieri sono proprio i particolari a prendere il sopravvento su tutto,  sia che si tratti di oggetti (la copia di Gladiator, romanzo di Philip Wylie che ispirò il fumetto Superman, ritrovata nell’appartamento del defunto Hollis Mason) o di sottofondi musicali (You’re my thrill di Billy Holiday, Neighborhood Threat di Iggy Pop). Una sobrietà inespressiva finalizzata ad esaltare psicologie ciniche e calcolatrici attraverso tratti sottili e monocordi, che trovano il loro ideale contro altare in sede di riproduzione dei dialoghi; durante i quali l’inchiostratore elimina qualsivoglia riferimento onomatopeico utilizzando al minimo le linee di moto, fino a farle scomparire del tutto durante le scene di lotta, per farle improvvisamente ricomparire nei rari e vertiginosi climax. Una procedura asciutta ma tremendamente efficace nel trasmettere un crescente tasso di drammaticità: tanto che il movimento stesso dei personaggi è spesso limitato alla sola postura o, nel peggiore dei casi, al sangue che perdono. L’intesa comunione d’intenti tra Alan Moore e Dave Gibbons fa sì che Watchmen raggiunga il suo equilibrio decentrandosi su due punti di vista narrativi, con quello onnisciente a prevalere sul racconto in prima persona: ciò permette ad autore e disegnatore di accantonare la tecnica del balloon a favore di rivelatori flashback dal sapore decisamente filmico, articolati all’evolversi degli eventi da una serie di documenti d’approfondimento posti a conclusione di ogni capitolo (accorgimento, quest’ultimo, che Moore tornerà ad adottare, ma con valore decisamente più “cronistico” e storico, in From Hell). Rievocazioni chiarificatrici utilizzate anche in sede di descrizione dei personaggi: basti pensare al Comico, comunque protagonista della vicenda attraverso il ricordo dei conoscenti, nonostante il suo presunto omicidio apra di fatto la narrazione in medias res. L’anima multistrato di Watchmen viene poi ulteriormente potenziata dallo stratagemma meta-mediatico de I Racconti del Vascello Nero, storia dentro la storia ispirata alla canzone Seerauberjenny (Pirata Jenny) contenuta nell’Opera da tre soldi di Bertold Brecht, racconto indipendente e, al tempo stesso, ennesimo stratagemma utilizzato da Moore per dare risalto ai temi della trama principale. I reiterati tentativi del naufrago di far ritorno a casa (sorvegliata in sua assenza da un guardiano notturno)  per avvertire dell’imminente arrivo di una nave fantasma composta da un equipaggio di non morti, altro non sono se non una contemporanea rilettura del personaggio di Adrian Veidt, della cattura di Rorschach, e dell’autoesilio su Marte del Dottor Manhattan. Chiavi di violino nascoste e passaggi segreti che trovano la sintesi della loro creativa potenza simbolica all’interno del capitolo intitolato “Agghiacciante Simmetria”; la quinta sezione, infatti, rappresenta una vera e propria eccezione all’interno dell’opera: non si apre con la consueta close-up epigrafica, ma si dipana sui codici di una struttura simmetrica all’interno della quale la prima pagina e la prima vignetta diventano speculari all’ultima, la seconda alla penultima ecc. In questa unità viene lasciato ampio respiro a simmetriche citazioni indirette (il poster palindromo all’album dei Greitful Dead Aoxomoxoa), attraverso le quali Moore omaggia Northrop Frye, critico letterario che rivelò al mondo il sistema sulle cui regole era basata la visionaria produzione di William Blake, rivalutando, assieme al nostro Ungaretti, l’eccentrico poeta citato in chiusura di capitolo attraverso i primi versi della sua composizione più celebre: La Tigre.  

FINE 1° PARTE

08 marzo 2009

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