SEGUICI SU


e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

A cura di Alessandro Tavola

1. REALIZATEURS AND MORE(?)

David Lynch è un immaginario, cosa che non si può dire di tutti gli Autori: approcci che feriscono gli argomenti e le eterogeneità che permangono nelle fattezze e nella generalità, messe però di un unico sistema di gravitazione, il cui centro è tanto sole quanto buco nero, un (qual)cosa che per quanto estrinsecato dalla propria natura ambigua dalle analisi – psicologiche, sociali, stilistiche, artistiche – sta nella sensazione, originaria e finale, del prodotto in sé, che nel particolare di Lynch è sempre allo stesso tempo astronave e landa come navetta spaziale ferma su un’arida pianura o appartamento stagno sospeso nell’universo; sintetico quanto assoluto contrasto che ha il “vuoto” (empty) come punto d'incontro ma non di scontro, nel concetto, nell’idea tanto nitida da sembrare ugualmente sia inconscia sia costruita ma mai volgare; più che di morte (che necessita la vita), di non-vita.
Quanto Kitano, pittore, poeta, comico, scrittore; anche Lynch è poligrafo esteso in senso artistico: pittura, disegno, fotografia, musica, videoarte. Entrambi trovano il loro lavoro-capo nei Film (affermazione cinefila non senza candore), ma solo col secondo si può parlare di un immaginario unificato, derivato (anzi, deducibile) proprio dal paragone dei loro differenti, ambedue magnifici, Cinema: Takeshi Kitano è fuga dal dover esistere, da sé stessi (e l’ultima, ancora per 2/3, trilogia ne è la massima espressione distruggendo pian piano, parlandone, la registicità e il regista stessi); David Lynch è overdose di interiorità, di riflessione, di ricerca essenziale che non riesce a fuggire una fobia praticamente omnia e il baratro gorgogliante conseguente (lo specchio di Mulholland Dr, il cerchio di Strade perdute, la matrioska di INLAND EMPIRE, il blocco assoluto di The elephant man); via dal mondo il primo, alla disperata ricerca il secondo; e se nel centro c’è lo spirito, le loro direzioni sono opposte, de-geometrizzando speculari, quasi congruenti, trovando uno il non-mondo che cerca dando lo stesso nella sterilità e nella crudeltà – quasi non ci volesse avere a che fare; l’altro vomitandolo su un vassoio d’argento, che non riesce a ricomporlo, a coglierlo nella sua integrità, a digerirlo, a guardarlo in faccia. Il Cinema è sempre, prima di tutto, un esorcismo.
La differenza è quindi proprio in quanto detto, verso la cima (Lynch) e verso la valle (Kitano) dell’unica montagna di cui si può parlare; percorso di offuscamento ed embolia che come scopo, quindi come mezzo, ha un solo pensiero, contro un obbligato dover scegliere – quanto estesa può essere quella valle? – che risolve nello sdoppiarsi espressivo: yakuza, fiori, poesie su pagliacci, dramma e comicità demenziale così auto-e(sc)lusive da diventare irriconducibilità se non nominale, evitare il punto comune, negare un tratto, qualsiasi certezza autoriale, immaginaria, persistente solo nel demerito autoimposto, nell’eco di un senso di colpa o nella compresenza in una stessa opera cinematografica, dove l’indecisione può/deve/grida (non) raccontando, per natura, bulimica (cit.) e ancor più nello scindersi in più arti, dove si stagliano forme e pensieri, libera(n)ti (s)confinati tra infantilità e maturità; pannelli, fil(m) di ferro e soldati che in Lynch non esistono, se non disciolti, fusi bruciati vivi: massa informe, vomito di tutto, accumulo di pensieri fino ad esplodere, rigetto unico, pulito e sporco elasticizzati in un a/co-mplesso; per contrappunto necessario: anoressia, ch’è genetica, e sconfinatezza.

2. LE (GLI) ARTI DI DAVID LYNCH

È nel miscuglio, dal colore impuro e dall’odore cattivo, che è tutto. Elementi che trovano l’identità, che nel negativismo è nell’errore, nell’essere stati non diverso dall’essere futuro; maggiormente nell’atto di diventare passato, nella metamorfosi nascente, dopo il primo conato, alla prima emissione che lascia una digestione a metà, il cui tempo è espropriato dallo scopo, interrotto. Appunto, il vomitare è per un qualche problema d’organismo che non riesce a compiere l’aspettato presupposto; il rappresentare le cose qui è nel limbo tra il nutrimento e il digerito, sempre vita e morte (ossia l’arco dell’esistere tra questi due estremi), o meglio, nessuna delle due; un’ematemesi (che in The alphabet era proprio il climax), forza di volontà violatata da una componente che toglie la forza decisionale alle cose e alle persone.
Dipinti, film, foto e disegni di Lynch sono questa paralisi, cogliendo la sfumatura in cui le cose non sono nessuno degli estremi che le definiscono ma semplic(ement)e l’intenzione che contengono, sia volta verso il declino che verso il brillare; l’attimo d’esitazione tra il pensare e il dire quando il concetto non è poiché non ancora verbalizzato e allo stesso tempo è il suo intenzionale futuro, destinato poiché pensato; l’istante in cui la già sottile membrana tra l’oblio e la gloria nasce e muore, prima di andare a (ri)consolidarsi in una sola delle due. Il keyframe (nel filmato di una) di una mutazione, il fotogramma che di per sé è amorfo ma determinante; tra il rosso e il blu quel viola che allo stesso tempo è sangue e cielo, senza però sapere quale venga prima e quale dopo (Come se fosse necessario...).
(Auto)tentacolare divenire espanso, prese più volte l’aspetto di un “mostruoso in abito da sera” o “paradiso orribile”, “agorafobica minutezza” come “claustrofobia dell’ampio”; un graduale accostamento di normalità e disgusto, raffinatezza e marciume, nella loro più assoluta angoscia, nel loro contenersi l’uno nell’altro, nelle loro identità affini date dal fascino unificante a cui appartengono, vicendevoli disgusto ed eleganza come prodotto di un disturbo psicotico, di una nausea immancabile, liberatoria. In Lynch, tutto è interiore, la sua musica spazia dall’hard rock al lounge più avvolgente, tutto è un discorso tra il dentro e il dentro, tra il dentro nel dentro, tra il dentro per il dentro, tra il dentro e la sua line-idea del fuori, che appare lontana, ideale, aulica e impossibile, quasi affermata come inesistente o immutabile, mole immisurabile; l’infinitamente piccolo quale l’infinitamente grande, un’immaginazione ad occhi chiusi in cui tutto va a fuoco o risorge come un’araba (e in questo senso il suo corto migliore è lo spot realizzato per le Parisienne), sempre The air is on fire.

Sia il tempo di un Film, la temporalità di una narrazione, le perpendicolari di un’inquadratura o di una tela, la superficie ristretta di un tovagliolo o di un biglietto da visita, tutto è pensato, concentrato (o ritrovato) verso l’interno; è un feto che tenta di tornare allo stato originario di ovulo, spesso senza riuscirci: i buchi neri, nella seta, i mondi....
Così che nei tratti violenti e scuri dei suoi dipinti protagonista è spesso Bob (un nome un palindromo un cerchio), con la sua casa che va a fuoco, il suo cane morto, la sua testa esplosa, la sua pistola puntata contro Sally mentre intorno è il vuoto inspessito di tempere e oggetti aggiunti - cotone, insetti di plastica, legni, pompe di plastica, teste di bambola e quant’altro – e sempre desolato, caldo, sfondo di situazioni realmente nere, disfatte e insensate, lacrimanti sotto una covata lavica impedente.
Le sue foto, a volte si danno con sensualità a luoghi abbandonati, altre, brulicanti di pixel, sformano donne senza vesti, i cui arti vengono dislocati o modificati digitalmente: mutilate o dai visi distorti, è l’animo che viene adoperato e mostrato, non il corpo nudo che tanto più non è.
Un estintore, di quelli veri, appartenente alla galleria, viene accerchiato da qualche pennellata rossa e nera e legnetti, tra grandi e piccoli, disposti in verticale. Diventa protagonista di “Storia di un estintore” lungo tutto un muro. Anche se probabilmente non verrà mai usato.
Una saletta proietta a rotazione alcuni dei suoi film brevi: i primi, quelli cinematografici; la serie digital-stilizzata d’animazione Dumbland, gli ultimi corti (pessimi?) di videoarte, che nell’apparente inutilità traspirano sensazione di sensazione (la stessa sequenza di movimenti una pressa, uno stantuffo, un martelletto ripetuta per 10 minuti o le decine di secondi di foreste a rallentatore), che tale per ora rimane, non ancora parte di alcun film.
Una scarpa col tacco, circondata da secchi e lunghi legni bianchi. È bianca, l’interno è zebrato. Il tacco laccato di rosso e nero. È su un piedistallo, illuminata da una forte luce bianca. Le ombre dei legnetti così sono proiettati su un muro.

3. GENETICAMENTE

Affascino senza stupore, che trae la principale propulsione dal background dato dal conoscere Lynch in quanto Autore Cinematografico, punto di partenza che inevitabilmente è sempre il punto d’arrivo. Opere finite come foto e quadri perdono d’interesse, sono lì date in assoluta completezza che non appare tale, poiché ultimo (cronologicamente) capillare dell’immaginario che si diceva, che nel Cinema trova la maggiore risoluzione del volgersi stesso del pensiero, che proprio da tutte le altre trova la sua stessa composizione: il Cinema sa di tutto, soprattutto di quel tutto che non parla di niente o che non sa di parlarne, è sunto nuovo di altre espressioni, è parola tradotta, dialogo tra i suoi componenti traverso i costituenti, tra il film e se stesso e il suo autore, tra il film e quelli che lo precedono, parentela non preposta (Strade perdute e Mulholland Dr sono fratello e sorella, Eraserhead è il loro albero genealogico); il Cinema è fatto di tutto pur non possedendo niente, è ciò a cui tutte le altre opere han sempre mirato, il punto di convergenza finale. Al di fuori di ciò c’è la musica: di ogni cosa si può dire che è cinematografica o che è musicale, si può dire che un film è musicale ma non che una musica è cinematografica, perchè non può non essere che solo musicale, mancante della dimensione del Reale che all'ambito del visivo appartiene. Al centro, quindi, c’è il Cinema, tra la musica e il resto; ancora di più nella poliedricità Lynchana, che, rimanendo fedele all’atto di mutazione, in questa mostra trova la sua par(e)te migliore negli scarabocchi, sì.
Decine di schizzi, appunti, frasi a caso, disegnini da sovrapensiero su pagine di copioni, tovaglioli, fogli intestati, fogli semplici, biglietti da visita, cartoncini di hotel.
Composizioni astratte fitte di sottili e semiperfetti tratti di penna o di matita, che sembrano palazzi, corridoi, volti, affreschi, panorami; quando in realtà magari sono semplici linee.
Volti abbozzati, incrostati di colori di pennarello, sbilenchi e sformati, ripetuti decine di volte o una volta sola.
Mescolarsi di fittizi schemi che pare provengano da qualche blue print: linee semplici, dritte e chiaroscuri.
Lettere in bella grafia, in pessima grafia, «PEG WAKE ME UP AT 9:30 AM LOVE DAVID». Nomi, parole che sembrano dettate dal caso del momento.
Inchiostro nero e filiforme di cavi, sagome, divani, luoghi, oggetti: un calderone denaturato e espressionismizzato.
Scavare nel risultato dei momenti di vuoto di una persona, quando questa è un Autore: ogni cosa, ogni singola linea, ogni singolo puntino, spazio riempito o lasciato vuoto, ogni sbavatura, ogni scelta di colore è già Cinema, tende al Cinema perché da quei pensieri che nascerà o con cui avrà un momento di comunione.
In questa visione uno sgorbietto sulla prima pagina dello script di Velluto blu è più parte di colui che qui stiamo considerando come Cineasta che di qualunque sua fotografia nata per essere “solo” tale.
Mo(a)strar(r)e che per la maggior parte non sarebbero opere se non prese attraverso un fitto feticismo, sforando anche il considerarle per il loro essere costituenti di Cinema e di Autore, presupposto essenziale per capire il fascino, il tratto, il meccanismo, che è nella causa stessa non dei dipinti (o non completamente) ma degli schizzi, degli scarabocchi, degli appunti, delle divagazioni di stilografiche, pennarelli e penne Bic; DNA creativo comprensibile solo col dopo di tutte quelle Pellicole e Digitali che furono poi, ma esistenti prima, qui nella loro propria sottopelle, nella radice che sta sotto un cuoio, magari connessa, sicuramente accostata, accomunata e accomunante, tangente con il resto dei tessuti, dei nervi, dei linfonodi, delle membrane; di tutto quel sempre più preciso e meno specifico abisso sterminato della Creazione.
Sì, il disegnare libero e spensierato (senza scopo) del Regista di The elphant man, Fuoco Cammina con me, Una storia vera, Cuore selvaggio è più importante di un quadro del pittore David Lynch.

04 novembre 2007

TOP

Lanius CMS unhandled error ERROR
Warning: Illegal string offset 'instance' in /web/htdocs/www.positifcinema.it/home/old/modules/mod_search.php on line 13

Lanius CMS unhandled error
Fatal error: Cannot redeclare __raw_strtoupper_cb2() (previously declared in /web/htdocs/www.positifcinema.it/home/old/includes/errtrace_funcs.php:95) in /web/htdocs/www.positifcinema.it/home/old/includes/errtrace_funcs.php on line 95