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e (ancora per poco) sulla pagina del vecchio dominio

CRONACHE DA VENEZIA 2011

A cura di Davide Ticchi


REGIA: Franco Branciaroli
CAST: Franco Branciaroli, Luca Ragni, Tommaso Cardarelli, Alessandro Albertin
PIECE: Samuel Beckett

QUEL TOPO MORIRA’ SE NON L’AMMAZZO

Proprio così: “siete al mondo, ormai non v’è rimedio!”. Beckett esprime la sua decadentista filosofia di vita, e quindi di morte, attraverso il teatro, il proscenio che annulla la cavea in cui siedono spettatori attoniti, fissi a trangugiare parole illuminate dalla luce multicolore che filtra dalle due finestrelle sul palco e dai secchi della spazzatura, che tondi, perforano il pavimento come colonne greche di molare pesantezza e, che aperti, emanano un bagliore caldo e gutturale. Oltre a questo vi è poco altro, il microcosmo è così riassunto in una stanza dove personaggi corrono da una parte all’altra come impazziti. In verità solo uno, figura tuttofare che vive tra cucina e sala, dove qui sì la luce artificiale talvolta illumina la scena, dipartendo da una lampada materica, occhio fisso sul privato. Quello di Beckett è essenzialmente unidirezionale, volto al microcosmo che aspira al macro, aldilà delle finestre dove più volte dai protagonisti vengono evocate le bellezze, i porti, i mari, le montagne, la terra. Sbagliare finestra significa rendersi conto che la terra è stata sommersa dal mare o che questo si è prosciugato. Sbadato, pazzo Beckett mette in risalto tutta la nostra intima sventatezza, la nostra mancanza di confidenza con il mondo esterno, scrutato dai vetri, mai toccato con mano. E se Branciaroli ricorre alla sottrazione, all’annullamento degli sfondi e delle macchine sceniche per lasciarci immaginare ciò che sta aldilà delle finestre, gli interpreti devono far uso di mezzi, arnesi per “guardar fuori”, prendere in mano il cannocchiale. Scoperto dall’ingegnere fiammingo e perfezionato da Galilei in età barocca, induce a credere che la poetica della meraviglia sia familiare a Beckett, quella per cui si gira intorno a un tema per lungo tempo cavandone fuori solo contraddizioni, vaneggiamenti e paradossi. Meravigliare è una virtù rara, e Beckett nel ventesimo secolo è stato in grado di darcelo a credere fornendoci quel gusto ermetico di aristocratizzazione dell’arte con il nichilismo. Profondo e opulento, pieno zeppo di orpelli dialogici negati dalla neutralità degli ambienti, dalla scarnezza dei volti di protagonisti intorpiditi dalla noia e dall’abitudine, quasi diseducati da queste. Personaggi ridotti a gridare: “cibo!”, come dei cani a cui viene guardacaso concesso un biscotto a forma di osso, da dividersi. Veri e propri incubati nel mondo fatto di presente, ossessionante, vivono quattro individui dei quali ognuno è caratterizzato da un handicap, quattro freaks futuristici anchilosati dal tempo. Hamm è seduto sulla sedia a rotelle, con rotelle troppo piccole per correr via, alle quali servirebbero cerchioni da bicicletta, è cieco; Clov è il suo servitore gambe di legno, indisposto e apparentemente folle, ci addentra nell’anfratto beckettiano ridendo come uno stolto alle mosse più routinarie della sua incolore esistenza, come aprire le finestre o i secchi dove vivono Nell e Nagg, genitori di Hamm ormai sul “finale di partita”, ansiosi di vivere insieme per sempre. Finita qua la descrizione dello spettacolo degli spettacoli di Samuel Beckett, la favorita opera del genio di Dublino, che si riduce all’essenziale fisico per conseguire l’astrazione assoluta, sfavillante alternarsi di scintille concentrate fra quattro mura, capaci di raggiungere e colpire gli spettatori seguendo le traiettorie intelligibili più disparate e incredibili. Ridere dell’infelicità umana sembra essere il suo “scoop” (anche Allen intrattiene i deportati sulla barca della morte, in Allen c’è molto Beckett), votato al relativismo più pernicioso secondo i canoni usuali della società, che reputa sfortunato il cieco, il folle, il vedovo e la morta. Abbandonarsi quindi tra le grinfie di uomini che normalmente eviteremmo, a cui stiamo bene alla larga, ma che nascondono l’ignoto e insperato spazio metafisico cui, abbandonate le briglie del reale, sarebbe splendido lasciarcisi cadere. Gli sproloqui non finiscono mai, le infinte contorsioni del verbo non smettono mai di meravigliare, gli sbadigli di Hamm sono come respiri profondi che è necessario fare per continuare a renderci conto che ciò che si ha di fronte non è altro che noia, riempimento. Beckett, come la superba messa in scena di Branciaroli, concede tanto divario a questo dualismo, divertimento-annullamento, da farci vivere epidermicamente il mistero della vita, nel suo eterno sfumare, diradarsi di emozioni, fino alla morte, alla scritta fine sui nostri occhi ben chiusi, per sempre. Il finale di partita è quel bilico immutabile tra burrone e vuoto, l’uno ancora saldato alla realtà invivibile dei non mostri, l’altro già precipitato nella vuotezza del vuoto. Il tutto e la negazione di tutto pervaso di inquietudine metafisica, interplanetaria e immanentistica al tempo stesso. Interpreti tagliati per il ruolo che rivestono fanno apparire esile la soglia tra la vita e la morte, tra lo: “ieeeeeeeeeeeeriiii” che si perde nell’infinito e l’ “oggi” che non termina mai, continuando a ripetersi.
Tutto è mortibus.

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05 novembre 2006

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