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CRONACHE DA VENEZIA 2011

A cura di Francesco Giulioli

riflessioni ed analisi dopo la visione della prima serie di Lost

La visione di un’unica stagione può essere troppo poco per dare un’interpretazione unitaria di una serie come Lost, eccezionale per qualità, originalità e soprattutto reticenza, tuttavia ci si può almeno avventurare nel campo delle impressioni articolate, in attesa che la seconda serie, di cui è appena iniziata la programmazione in Italia, scopra le sue carte.
In primo luogo, una delle impressioni più forti trasmessa dalla nuova creazione di J. J. Abrams è che essa rappresenti in qualche modo il perfezionamento (quando non l’esasperazione) di moduli narrativi sperimentati con successo dalla serialità americana degli ultimi anni. Sintetizzando, si può dire che in Lost si esprime la piena maturazione del meccanismo della sorpresa, un’elaborazione originale della struttura della puntata e della serie stessa (attraverso l’espediente del flashback), e un’esasperazione del principio dell’attesa. Lost appare quindi come il luogo dove arriva a compimento l’arte americana del racconto seriale, il diamante scaturito dalla pressione di una storia ormai illustre, da Hill Street Blues a oggi. E nello stesso tempo potrebbe persino esserne il punto di non ritorno, magari l’annuncio di un’apertura verso modelli e ritmi diversi, come per esaurimento delle coordinate attuali. Chissà se fra qualche anno non andranno di moda fiction dal carattere contemplativo come film orientali... (anche se naturalmente è molto più probabile che il successo di Lost vada piuttosto ad alimentare un buon numero di epigoni di livello inferiore, ma questa è un’altra storia).

i piani del racconto

Dal punto di vista strutturale l’originalità di Lost è da subito evidente e risiede nel modo tutto particolare in cui si integrano flashback e narrazione al presente. Ogni puntata (salvo le licenze di inizio e fine serie) mostra in flashback un episodio della vita di un singolo personaggio, montato in alternanza con le peripezie collettive del gruppo di sopravvissuti sull’isola. Lost ricorda per certi versi un novelliere medievale alla Canterbury Tales, in cui ogni personaggio del gruppo a turno racconti il suo percorso individuale. In Lost però, la cornice non è inerte; sia nel senso che è pur sempre sull’isola che succedono la maggior parte delle cose e che si attua l’investimento più ovvio di curiosità (“come faranno i nostri eroi...?”), sia nel senso che esiste una forte comunicazione fra i due piani del racconto. Infatti, anche se in genere il legame materiale fra gli eventi al presente e quanto è già avvenuto al personaggio è tenue o inesistente, il flashback ci permette comunque di chiarire il perché il personaggio si stia comportando in un determinato modo. Nei migliori dei casi, le situazioni che si sviluppano nell’isola assurgono a verifica del percorso esistenziale del personaggio, e costituiscono il completamento della vicenda narrata in flashback. Si tratta di un’interpretazione particolarmente innovativa di uno dei meccanismi tipici della lunga serialità, l’alternanza fra le linee orizzontali del racconto, ossia le situazioni che si protraggono per più episodi, e quelle verticali, cioè lo specifico “caso” di puntata. Questa gestione dei due piani temporali crea l’effetto di unità separate ma comunicanti, attraverso l’uso di una retorica sofisticata e di un’attenta gestione delle scoperte.

Lost si presenta quindi come una panoramica su un gruppo di personaggi per lo più privi di legami reciproci (l’unica cosa che li accomuna è l’aver preso lo stesso aereo) e posti in un contesto apparentemente arbitrario, che li isola dal loro ambiente e dal loro mondo affettivo originario – che andremo poi a scoprire tramite i flashback. Il risultato più notevole di questa impostazione narrativa e strutturale è la creazione di uno spazio narrativo totalmente disponibile, all’interno del quale in teoria possono affacciarsi personaggi dal background del tutto differente (vedremo in seguito perchè non è esattamente così). L’isola è come il sottovuoto ideale degli esperimenti di fisica, un ambiente puro che consente di isolare i vari personaggi e di trattarli sia individualmente sia facendoli “reagire” gli uni agli altri. Lo spazio dell’isola non è però uno sfondo neutro, ma è connotato come luogo soprannaturale e al di là delle leggi del mondo ordinario. Ma questo, invece che vincolare, non fa che liberare (per non dire deresponsabilizzare) ulteriormente le potenzialità narrative: non solo è un luogo dove può capitare chiunque, ma dove può anche accadere di tutto: orsi polari, aerei misteriosi, voci che che sussurrano nella giungla e via dicendo. Queste sono premesse ideali perchè Lost persegua il suo esperimento sul racconto, verso una sorta di narratività assoluta, per il quale si avvale di un uso iperconsapevole dei due strumenti principali della valigetta del narratore: la sorpresa e la suspense.

personaggi a sorpresa

Più che di sorpresa sarebbe piuttosto opportuno parlare di rivelazione, dal momento che ogni personaggio è detentore di un segreto, o ha dei lati nascosti in contraddizione con l’apparenza più immediata, e che quindi ogni episodio è in primo luogo un processo di scoperta del protagonista di turno. Ad esempio la ragazza incinta, che viene caratterizzata principalmente da questa sua condizione, vissuta in modo placido e sereno (almeno finchè non si scatena un oscuro interesse verso suo figlio), in realtà aveva deciso di abbandonare il bambino e per questo soffre di un grandissimo senso di colpa. La sorpresa è in effetti l’espediente retorico che maggiormente distingue i flashback, anche se spesso le rivelazioni si snodano fra passato e presente in un continuo gioco al rilancio con lo spettatore. Scopriamo quindi che il misterioso avventuriero Locke non è che un modesto e vessato impiegato (seppure interessato a intraprendere un rischioso viaggio di “rinnovamento spirituale”). La sua storia termina con un autentico colpo di scena: Locke era in sedie a rotelle quando è partito ed è miracolosamente guarito in seguito all’incidente aereo, una rivelazione che ci porta a rileggere sotto una nuova luce la sua storia e a dare un nuovo significato alla sua presenza nell’isola. In casi come questo la narrazione è in definitiva più orientata dallo sguardo dello spettatore, che deve indagare il mondo del personaggio, che dalle azioni e decisioni compiute dallo stesso.
Lost sembra avere uno schema privilegiato per raccontare i suoi protagonisti, quello della caduta e del riscatto, che spesso avviene sull’isola stessa (è il caso del tossicodipendente Charlie che salva il medico intrappolato nella grotta). Altre volte abbiamo un oscillare attorno al giudizio etico sull’eroe, che prima si degrada e appare peggiore di quanto non sia veramente, finchè non viene compreso a fondo: è il caso di Sawyer, truffatore traumatizzato (da manuale nel modo in cui integra passato e presente; infatti qui è Kate a improvvisarsi detective e a scoprire chi è veramemente Sawyer).
Nel superare costantemente le apparenze rivelando il personaggio tramite un sistema di sorprese, Lost dimostra di aver assimilato la lezione della migliore serialità americana. Viene ad esempio da pensare a ER, dove curiosamente questo procedimento si applica quasi più ai pazienti – di cui non sappiamo nulla e che possono essere oggetto di fraintendimenti o depositari di segreti – che ai medici, di cui conosciamo vita morte e miracoli e che condividono un background comune. Questa assonanza con i pazienti di Er rafforza la nostra impressione che i personaggi di Lost siano le cavie di un esperimento narrativo, poste in uno spazio assoluto e non referenziale. La “assolutezza” di questa forma narrativa si rispecchia anche in quanto detto sopra, nel fatto che il movimento di scoperta dello spettatore è quasi più importante dell’agire del personaggio. Si porta alle estreme conseguenze il principio che ogni svolta sul piano narrativo preveda un cambio di stato a livello conoscitivo, portando a stabilire un’identità fra i due. Complessivamente, il limite di questa impostazione è data da un certo senso di meccanicità, che per altro sembra in grado di produrre solo storie altamente drammatiche. Un limite aggirato sia dall’abilità degli sceneggiatori di variare sugli schemi fissi, sia dalla possibilità di far crescere il personaggio durante la serie, facendo quindi della sua storia passata un termine di confronto dialettico col suo nuovo ruolo sull’isola.

l’isola dell’attesa

Se nei flashback domina il meccanismo della scoperta e la descrizione con pochi tocchi di un individuo, l’isola è il territorio della curiosità insoddisfatta, di un’attesa di risposte eternamente dilazionata che va in effetti al di là della mera suspense. La narrazione al presente, oltre a essere il completamento dell’esperienza passata e il luogo dell’interazione fra i diversi caratteri, è anche il momento in cui la fa da padrona l’isola stessa, il più bizzoso e contradditorio dei personaggi.
Come già detto, alla libertà narrativa nella creazione della galleria dei protagonisti, corrisponde altrettanta libertà quanto ai fenomeni che si verificano nel loro nuovo ambiente. Se dei personaggi qualcosa ci è detto e qualcos’altro (spesso informazioni fondamentali) è lasciato indietro, tutto quello che scopriamo sull’isola non fa che rilanciarne all’infinito il mistero. Gli orsi polari, il “meccanismo di difesa”, gli “altri”… nessuno dei suoi fenomeni più perturbanti trova spiegazione nel corso della serie. Mentre le piste che hanno uno sviluppo, come quella del segnale di soccorso in francese, non fa che aprire ad altri misteri (la superstite, l’epidemia, i numeri magici). Lost si serve spudoratamente di un ordito di tiranti narrativi, quasi una pletora di Mc Guffin, per uncinare l’attenzione dello spettatore e traghettarla da un episodio all’altro, in modo che l’autoconclusività dei flashback sia bilanciata da un’apertura virtualmente infinita. Anche nell’uso di questo espediente Lost si situa in una dimensione eccessiva e sperimentale, facendo lievitare la curiosità fino alla frustrazione. È del resto l’aspetto che viene più criticato dagli spettatori, sebbene è possibile che nella seconda serie venga data qualche soluzione (naturalmente assieme a tanti nuovi enigmi). Ma a chi è rimasto deluso dalla conclusione della prima stagione evidentemente è sfuggito come questo telefilm abbia funzionato fino a quel punto: il finale con l’inquadratura a ristroso dentro la botola oscura ne riassume tutta l’ideologia, rilanciando il mistero col suo esplicito invito a proseguire oltre.

Il risultato di questa assolutezza narrativa, imperniata su un sistema di scoperte e di misteri, sembra essere una sorta di pornografia della curiosità. Tutta l’architettura della serie appare orientata in modo da suscitare questo desiderio di saperne sempre di più, sia dei bizzarri misteri dell’isola, sia circa i protagonisti. Anche sulle parti in flashback, una volta che se ne è assimilato il meccanismo, lavora una forte componente di interesse, in questo caso di stampo quasi voyeristico: “e adesso voglio sapere qual è la storia di…” Storia che per altro sarà sempre parzialmente reticente, congegnata in modo da dare abbastanza informazioni perché la puntata sia intellegibile, ma non di più. In qualche modo, la “purezza” narrativa che abbiamo riscontrato in Lost rivela – in una forma spettacolarmente evidente – la dinamica fondamentale che sostiene tutta la lunga serialità (almeno quella basata su lunghi archi narrativi orizzontali). Del resto, la narrazione seriale in quanto tale ha come obiettivo primario quello di rimanere stimolante nel corso del maggior tempo possibile, e per questo ha bisogno di suscitare curiosità più ancora che emozione. Questa istanza elementare in Lost assume un carattere più evidente, perché il concept su cui si basa la serie teoricamente è più adatto a una narrazione breve: quanto a lungo un gruppo di naufraghi può stare su un’isola deserta prima di salvarsi, essere salvato o annoiare? L’isola deserta inoltre non è un ospedale, una cittadina di frontiera o un college, e può sembrare una ambientazione poco adatta per rifornire con costanza una stagione di nuovi personaggi e situazioni. Queste due considerazioni elementari bastano a spiegare il perché di un’impostazione narrativa tutta giocata sulla moltiplicazioni delle domande, e sulla scelta della fantascienza come genere di riferimento.

si vede che era destino

Quella della fantascienza è veramente una scelta geniale, e per nulla scontata, dal momento che una storia di naufragio ben si presta a essere declinata anche in un registro puramente avventuroso. In effetti è più corretto parlare più generalmente di fantastico, in quanto il repertorio fin qui esibito è piuttosto vario e vago (voci e numeri misteriosi, premonizioni e predestinazioni, una botola metallica nel terreno…). L’appartenenza al genere fantastico ad ogni modo, non solo è il mezzo che consente la semina di indizi indecifrabili necessari a mantenere l’interesse, ma è anche il luogo in cui la serie trova unità e senso. Abbiamo detto come Lost sia prima di tutto una carrellata su un gruppo di persone prive di background comune e poste in territorio neutro. Questa è senz’altro una premessa narrativa potenzialmente centrifuga, atta a generare una serie di ritratti slegati e sparpagliati in un contesto astratto. Attraverso il ricorso al fantastico – sempre ellittico e mai sistematico – Lost riesce a produrre senso proprio opponendo costantemente resistenza alle sue stesse premesse. Uno degli aspetti su cui si insiste di più è il sospetto che i naufraghi siano in realtà un gruppo di predestinati che l’isola ha voluto chiamare a sé. Tutta la serie sembra lottare contro una spontanea impressione di casualità per suggerire una qualche necessità dell’essere sull’isola da parte di questo particolare gruppo di persone, ed è proprio qui che agisce con maggior forza ideologica l’assunto fantascientifico. Lo fa a volte in maniera implicita, spandendo un ambiguo alone di magia sulle storie di alcuni dei suoi protagonisti: il bambino, la donna incinta, il ciccione (ossia i diversi per statuto), dando l’impressione che forse qualcosa li attendeva sull’isola da prima del loro arrivo. Verso la conclusione della stagione, questa idea viene anche esplicitata nel dialogo: è Locke, il più tenace e fanatico esegeta dell’ambiente circostante a insinuarla al razionalista Jack.

Se il gruppo non è finito lì per caso, allora è necessario che ci sia qualcosa in comune fra i vari membri, e questo in qualche modo dà anche conto del perché tutti abbiano inevitabilmente alle spalle delle storie particolarmente dure. Del resto, l’isola è il destino di ogni personaggio in quanto ne è il banco di prova, il territorio dove superare i propri traumi e paure. Questa dinamica costituisce forse la poetica stessa della serie, il suo nucleo più profondo e più produttivo di senso. Anch’essa viene esplicitata a più riprese dallo sciamanico Locke, che guiderà alcuni dei suoi compagni d’avventura nel loro processo di crescita. È questo dunque il senso del percorso di tutti i protagonisti: l’isola pone una sfida ai suoi nuovi abitanti, che devono fare i conti con i propri fantasmi e possibilmente superarli. Il contesto fantascientifico rende più accettabile questo tipo di logica e il suo ineluttabile ripetersi di episodio in episodio. Grazie ad esso la serie ottiene un’identità di tono che ha la meglio sull’eterogeneità dei caratteri (il soldato, la rockstar, la ragazzina viziata…), creando unità e rafforzando la sensazione di un destino comune. La forza centripeta che tiene insieme Lost è proprio l’unità di tono e la sua blanda appartenenza alla fantascienza. Questo è un tratto che la diversifica dalla maggior parte delle serie, dove a dare unità c’è il gruppo dei protagonisti e il mondo che condividono, con la sua ideologia e le sue regole precise. Ma in Lost abbiamo un’ambientazione senza regole e con mille eccezioni, ossia tutti quegli elementi che servono proprio a garantirne la permanenza nel fantastico.
Naturalmente anche la percezione dell’unità interna alla serie vive nella dimensione dell’attesa, dal momento che per ora non ci viene fornita alcuna teoria che ci spieghi perché il naufragio dei nostri eroi non sia casuale. E quindi anche il senso della serie rimane sospeso, è un “tendere verso” il senso. Allo spettatore si chiede di avere fede: in questo senso il genere fantastico serve a creare una vera e propria mistica di Lost. Anche il promo della seconda serie attualmente in circolazione conferma questa necessità: lo speaker pone l’inquietante prospettiva che se tutto è casuale, allora nulla ha senso. Un personaggio pronuncia la frase “e allora che cosa dobbiamo fare?”. La risposta fideistica della voice over è “Credere, credere che nulla sia casuale”…

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