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CRONACHE DA VENEZIA 2011

A cura di Alessandro Tavola, Davide Ticchi, Pierre Hombrebueno

A VENEZIA UN SETTEMBRE NERO INCHIOSTRO – A cura di Alessandro Tavola

Apre, anzi ha aperto (per sempre), questa Venezia 63 l’ultimo film di Brian DePalma, The Black Dahlia, e già, in questo parlare postumo a quegli undici Venice Days, si riafferma il sentore iniziale che quest’anno dietro al festival nella sua totalità ci sia stato un disegno, un mood portante, un collettivo sfacelo/rinascimento univoco, in tutto e per tutto, da e tra ogni film proiettato.
Un ammucchiarsi di elementi che si macchia(va)no tra di loro, per noi positivisti, in una visione complessiva che vedeva la manifestazione come un unico organismo, unica grande compilation di pensieri–idee-sorprese-delusioni imprendiscindibili l’una dall’altra, pellicole che in un modo o nell’altro si annusavano e mordevano la coda tra di loro, (inter)lacciate per richiami visivi o musicali, messe a cerchio-scacchiera in un unico quadro-parete, danzanti assieme come in una ballata felliniana, se non addirittura nel loro lamentarsi collettivo, pianto di gruppo, legati e torturati in splendidità formale come nella scena finale di Salò (che anche quest’anno ritorna, come vettore documentaristico, sempre più attuale).

Questo perché c’è molta più (tra le righe, ma anche nella loro sostanzialità) omogeneità rispetto alla 62, che vedeva cozzare tra di loro film troppo diversi nell’animo, contrapponendo amori impossibili del vincitore Brokeback Mountain a quelli ideali di Elizabethtown, splendere del sogno americano in Cinderella Man e sua morte in Edmond, mentre in questo 2006 tutto diventa cromaticamente riconducibile ad un colore (che poi non lo è): il (quasi) NERO.
Quel grigissimo funereo comune (im)mortale ai fotogrammi in ogni completarsi di dissolvenza, nell’incenerirsi di una scena, nelle macerie pensierose cinefile della collettività che non può non trovare quel rimando infinito all’11 settembre 2001, veicolo narrativo già tediante, ma funzionante, nella visione nera di un punto di non ritorno, cronaca di morte annunciata, fuori e dentro il mondo di ogni film, con Oliver Stone e World Trade Center che accetta di uccidere il proprio Cinema pur di narrarla o Quelques jours en septembre di Santiago Amigorena che ne fa futile irreversibile countdown per i suoi personaggi.
«Per voi è solo un film, per me è la vita intera» si fa più che mai giusto il sentore da subito vivo, da quella laguna graffiata come un tramonto pretemporalesco su libretti, poster e portapass il legaccio tra ogni sogno-film, tra mondo e mondo, in un anno in cui il Signore dei doppi trip David Lynch riceve il Leone d’Oro alla carriera, presentando il suo non-Capolavoro, summa e archivio del suo immaginario visivo, INLAND EMPIRE.
VENICE EMPIRE a questo punto, il festival del Noir, della decadenza, del disfattismo, nell’annullamento quasi totale dell’happy ending, nelle storie, nei dialoghi, nel valore stesso dei film, anche nel loro essere infimi nella qualità e scialbi nella forma.

Negativismo che si fa positivo pulsare, colonna portante di un festival spesso dato per spacciato, soprattutto adesso, col coltello della Festa di Roma puntato sulla schiena, mantenendo la testa alta, ritrovando un’identità, con un parco film imperfetto ma potente, contando tra le sue fila grandi titoli già da tempo attesi, un giorno magari considerati come capolavori snobbati nel loro avere le idee (fin troppo) chiare – e balzano subito alla testa i pensieri per Children of men di Cuaron e The fountain di Aronofsky, i due avversi e moderni, entrambi caldo magma di un cinema radicato nel presente e lover del passato ma ammiccante al futuro, in stili e idee - e piacevoli sorprese da parte di attori incarnificati registi, come The hottest state di Ethan Hawke o Le pressentiment di Jean-Pierre Darroussin.
Cupo amore anche nel veder splendere grandi maestri classici come lo stesso DePalma, Resnais con Coeurs o Manoel De Oliveira con Belle toujours o il riaffermarsi di Tsai con I don’t want to sleep alone.
Sorridente “vabbè” nella post-visione di film etichettabili tranquillamente come “brutti” o “inutili” (e il Giappone quest’anno ce ne ha forniti, purtroppo).
Venezia 63, nel suo essere oscuro, brilla, brilla di coerenza e completezza (lucide o istintive? Chissene), Requiem Beethoveniano e allo stesso tempo New Born.
Euphoria di Ivan Vyrypaev.
Perché nonostante i metal detector buffoneschi, le visioni da zombi (sempre troppo presto o troppo tardi), alcune aspettative (quasi sempre legittime) infrante, le code o troppo calde o troppo fredde, ci ha dato, così come deve essere, decine di ore di Cinema – classico/straniante/nuovo/trans/transgenico/trash/spettacolare/incasinato/spento/silenzioso/di perfezioneformale/d’imperfezione/emotiva/sonnifero/acido/alcolico/sessuale/inquinato/colorato/morto/rinato/infinito/di sangue e di parole – in ogni graffietto e in ogni pixel.

Perché ricordando questo Festival con la tipica estremizzazione da titoli di coda, tra “Una merda” e “Capolavoro”, sarebbe tranquillamente la seconda.

VENEZIA/ROMA: LA NON SFIDA – A cura di Davide Ticchi

Si apre in “festa” la mostra cinematografica lagunare di quest’anno, che giunta alla sua sessantatreesima edizione non sembra avere rivali al mondo in quanto Mostra, termine su cui il suo direttore Marco Muller punta più volte il dito, quasi a volercelo ricordare. Infatti la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, come ogni mostra che si rispetti, propone un suo fil rouge chiave, che sta nel giusto equilibrio fra tradizione e innovazione, riassunto in un unico concetto e proponimento di “qualità”. Quella qualità poco ovvia certo, che vive in sordina, austeramente e pronta a sorprenderci nei momenti meno attesi, poco pubblicizzata e forse mai nemmeno distribuita, ma sempre qualità, alternativa, e quindi ancor più folgorante. Ora, la parola “festa” è stata pronunciata, e non a caso. La sfida immaginifica di soldi, interessi, vips ed intenzioni è stata profetizzata tra due città secolari e storicamente fondamentali come Venezia e Roma, che giustamente meritano anche una parata cinematografica, oltre a quelle in costume che svolgono ogni anno per commemorare le imprese compiute nel passato epico-navale. Ma se queste servono a guardarsi indietro, quelle cinematografiche, così eterogenee ed evolute, rappresentano forse uno scorcio di presente e un anticipazione di futuro, quelle porzioni di tempo cioè che solo grazie all’occhio della mdp possiamo vedere scorrere davanti a noi, osservare andare e venire in seguito ad una mis en scéne accurata e minuziosa. Insomma, le città di Venezia e Roma possono averne bisogno più di qualsiasi altro luogo d’arte. Ma non conviene confondere l’arte col sistema artistico, e con questo intendo dire che osservando la disputa avvenuta fin’oggi tra le due corporazioni, quella della Mostra di Venezia e quella della Festa di Roma, sembra rappresentarsi autonomamente un piccolo teatrino di contese stupide e beffarde, come tra due bambini che agognano al gioco dell’altro. Insomma, era prevedibile un contenzioso del genere, ma non così ottusamente improduttivo, perché dalle differenze degli altri si comprendono le caratteristiche individuali, e queste rendono autonomi e indipendenti, non ostinati a ritornare troppo spesso sul “solito” discorso… E allora diciamo pure che il campo è privo di agibilità e che le squadre hanno deciso di scenderci ugualmente, anche se la loro partita non figurerà mai sui tabellini. Croff e Veltroni vogliono qualcosa di diverso, e hanno dato due spunti differenti alle loro rispettive rassegne cinematografiche a premi. Il primo vuole che prosegua tramite Muller la tradizione ormai “mitica” della kermesse veneziana, ed il secondo, sindaco cinefilo, desidera introdurre la sua passione nella città che governa, Roma. Insomma una (non) sfida che terminerebbe 63 a 1 sulla carta, ma che in realtà deve ancora iniziare e mai comincerà. Sì perché in fondo i presupposti sono diversi, speculari come abbiamo detto, le tradizioni, i fini (qualitativi vs. commerciali) e i direttori pure (Muller vs. Detassis). Alla fine la disamina si riduce ad una constatazione, ci sorprendiamo e preoccupiamo perché una Festa del cinema può superare una Mostra, ammettendo così la nostra mala educazione alla settima arte ed alle sue diverse qualità e quantità.

ONE LAST THING BEFORE I SHUFFLE OFF THE PLANET – A cura di Pierre Hombrebueno

Tirando le somme. Così ci siamo sbagliati nelle previsioni. Per fortuna. Venezia non è mai stato così autoriale come festival, nel vero senso della parola “autorialità”, nella congiunzione d’intenti e di risultati, nell’omogeneità del lavoro svolto che rende questa edizione un magnifico album di direzioni univoche. Ed in fondo Marco Muller l’aveva detto. Nelle prime due edizioni sotto la sua guida ha dovuto vendersi per sondare bene il terreno, pensare più al glamour che al valore filmico delle opere presentate, al loro intrecciarsi di storie ed evoluzioni, riflessioni sulla settima arte e sulla strada che stiamo prendendo o rifiutando. Come se Muller fosse stato una puttana per due anni, esattamente. Ma questa volta è diverso, più personale/personalizzante, che se su carta ha destato i nostri più incazzosi sospetti, su schermo s’è trasformato invece in un capolavoro pittorico d’incastri perfetti tra i propri pezzi del puzzle. Un disegno superiore della carta per formare quel qualcosa di mistico, mood-spirituale che non contagia solamente le opere presentate alla Mostra, ma anche il pubblico travolto da questo nero, da tutto questo riflettersi del mondo cinematografico che arriva immediatamente a rispecchiare l’anima dell’incertezza nella fluidità dell’orizzonte.
Non più in the mood for love, ma in the mood for reflexion. O come ancora una volta, citando JLG: “Non è più il tempo dell’azione. Ora è il tempo di pensare”. E si pensa/ragiona/riflette tantissimo in questo festival, nella sua assenza quasi totale di film inutili; ogni vocazione dello schermo che si tinge nero poi bianco è l’incipit della visceralità profonda in cui le opere veneziane di quest’anno c’hanno portati ad addentrarci, a plasmarci, a rispondere ancora una volta in prima persona davanti all’Arte.
Abbiamo trovato una Mostra del Cinema finalmente consapevole di quello che vuole provocare ed essere. E la missione è compiuta perfettamente. Basta fare le puttane, qui si corrono rischi, quegli stessi rischi che hanno avuto il coraggio e la lucidità intellettuale di premiare col Leone D’Oro un’opera così poco distribuibile come Still life di Jia Zhang-Ke. Quest’anno Muller se le scorda le nominations ai Golden Globes e agl’Oscar, è totalmente libero così come è totalmente libera la giuria internazionale. Ma se c’è qualcosa in cui Muller ha perso, quella è proprio nell’impatto mediatico di questo festival: molto meno vips e dive in passerella, molto meno feste/festine/festoni, molto meno glamour. In questo, forse, quella tanta chiacchierata Festa del Cinema di Roma ha già vinto in partenza. Ma questo è il prezzo da pagare per riportare una vetrina come quella di Venezia al massimo della sua artisticità, della valorizzazione estrema di tutte le forme cinematografiche, non solo popolari. Pochi eletti sono destinati ad apprezzare nella fruizione un capolavoro come Still life. Stavolta Venezia non sarà sulle primissime pagine. In passerella non ci sono né Nicole KidmanSean Connery. E da questo momento in poi forse diverse redazioni sceglieranno di spedire i loro inviati a Roma, e non più al Lido.
Ma come qualcuna cantava: “sai, si muore un po’ per poter vivere”.

Noi, con Muller, ci saremo sempre. Dalla primissima fila della nostra passione.

 

I VINCITORI DI QUESTA EDIZIONE:

http://www.labiennale.org/it/news/cinema/it/65254.html
16 settembre 2006

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