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MY SON, MY SON, WHAT HAVE YE DONE?

REGIA: Werner Herzog
SCENEGGIATURA: Werner Herzog, Herbert Golder
CAST: Michael Shannon, Willem Dafoe, Chloe Sevigny
ANNO: 2009

 

A CURA DI DARIO STEFANONI


VENEZIA 09':  HERZOG FEAT. LYNCH

Già molto chiacchierato per via dell’egida produttiva di Lynch, My son my son what have ye done è il secondo film di Herzog presentato in concorso a Venezia insieme a Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans.
La vicenda è ispirata ad un fatto realmente accaduto: un giovane attore, ossessionato dall’Elettra sofocliana, finisce per immedesimarsi a tal punto nel ruolo del matricida Oreste sino ad arrivare ad uccidere, in un delirio mistico, la propria madre. Il collasso tra vita e mito viene così elaborato da Herzog in un’inconsueto “film dell’orrore senza sangue” (parole sue), complicato da una struttura spaziotemporale schizofrenica che si divide tra San Diego e il Perù e oscilla vertiginosamente tra il presente del racconto (il grottesco e interminabile assedio all’omicida trincerato nella propria casa) e i ricorrenti flashbacks (che ne raccontano la progressiva follia).
Herzog confonde i labili confini tra realtà e delirio, come se cronaca e incubo potessero legarsi in un tutt’uno indistinguibile, come se un devastato impero della mente (cfr. I.E.) potesse contagiare di follia anche la sua fredda registrazione cronachistica e lo spazio mentale dell’omicida potesse farsi weltanschauung totalizzante, in grado di divorare la supposta oggettività. Siamo quindi vicini a Lynch, a cui del resto si ammicca spesso con piglio semiparodico, come a tentare un bizzarro e consapevole connubio d’immaginario: se la madre ha l’inquietante maschera di Grace Zabriskie (che già infestava con solennità Inland Empire e Twin Peaks), sono molte le marche stilistiche di chiara derivazione lynchana, disposte nei colori, nelle forme e negli interni claustrofobici della tranche californiana. Al cortocircuito di poetiche, spazi e tempi, corrisponde anche una sfrenata libertà della messa in scena, che procede per accumulazione, sovraccaricandosi ad ogni passo di nonsense e invenzioni visive disordinate, sintomi di un horror vacui spesso frastornante. My son my son sembra così strutturato come un patchwork eterogeneo e sconnesso, che cuce brandelli di mockumentary telegiornalistico (le interviste ad amici e parenti dell’omicida) insieme alla fiction più bislacca e indisciplinata (come un’immotivata digressione visiva sul punto di vista di una lattina), privo di a priori stilistici e di prevedibili dichiarazioni d’intenti.
In particolare, il film trova il suo meglio nell’umorismo frenetico e sulfureo, dissacratorio nei confronti delle tradizionali logiche filmiche e presente tanto nella costruzione di gag surrealiste quanto nel tratteggio di personaggi memorabili e atipici (cfr. lo zio fuori di testa interpretato da Brad Dourif). Uno humour appesantito da un senso di minaccia persistente, che conserva a tratti un fondo disturbante e diabolico, capace di innescare un’implosione di insanabile ambiguità che mischia toni e codici e lascia il corpo filmico in scioccante bilico tra tragedia e farsa, brillante intrattenimento e sanguinaria astrazione. Luciferino e scomposto come una ballata voodoo di Exuma, sembrerebbe ambire per follia formale e lucore criminale all’invito all’omicidio di bunueliana memoria, ma finendo paradossalmente per assomigliare, per l’eccentricità del racconto e dei figuranti (Willem Dafoe, Udo Kier, la sempre meravigliosa Chloe Sevigny) ad un film del pupillo Harmony Korine, forse la coerente (e luminosa) figura-chiave tra il sarcastico gelo di Herzog e l’onirismo paranoico e tutto americano di Lynch.
Nel complesso, seppure vicino al film-gemello Bad Lieutenant per una certa inclinazione a derive misteriose e digressioni ironiche, My son my son what have ye done risulta meno avvincente dello straordinario (finto)remake, certo meno convenzionale e più coraggioso a livello figurativo e narrativo, ma al contempo maldestro e logorroico, come un’inafferrabile bizzarria, o un divertissement funereo, lancinante solo in potenza.

 

 

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