LOURDES
REGIA: Jessica Hausner
SCENEGGIATURA: Jessica Hausner
CAST: Gilette Barbier, Walter Benn, Bruno Todeschini
ANNO: 2009
A CURA DI DARIO STEFANONI
VENEZIA
09': DIO E’ BUONO O ONNIPOTENTE?
Tra le epifanie meno prevedibili della 66ª Mostra del cinema di Venezia, Lourdes, l’ottima opera terza
dell’austriaca Jessica Hausner,
si è rivelata una delle pellicole più sorprendenti del festival.
Apologo raggelante sul senso del miracolo, struggente lirica del Dubbio, Lourdes si serve di una mise en scène
cristallina, netta, implacabile. La Hausner,
cattolica sbattezzatasi in età adulta, decide di raccontare con delicatezza e
intelligenza le luci e le ombre del luogo di pellegrinaggio pirenaico,
mostrandone sia i tic turistico-consumistici che l’autentica devozione
dei credenti che vi accorrono, sia i grotteschi rituali alienanti della
Disneyland del cattolicesimo che gli effettivi miracoli che sembrano
avvenirvi. La natura combattuta e complessa della riflessione –più sul
valore e sull’utilità del singolo miracolo, che sulla Fede tout court -
è approfondita senza pregiudizi morali nè risposte preconfezionate, ma
interessata, piuttosto, a porre domande irriverenti, dubbi rivelatori.
Parallelamente, Lourdes racconta
anche la storia d’amore vissuta dalla miracolata Christine (una ragazza
arteriosclerotica che improvvisamente torna a camminare), che ritrova così
l’insperato (“Ho la sensazione di avere un futuro”), e
racconta, infine, anche la rete di affetti effimeri che si viene ad
instaurare tra i pellegrini. Perchè è chiaro che Lourdes si sofferma soprattutto sulla varia umanità dei
pellegrini, captata nelle più minute vibrazioni affettive, e più che una
nebulosa riflessione metafisica sull’esistenza di Dio, vuole
interrogarsi su ragioni e conseguenze dei miracoli da una prospettiva terrena.
Tutto infatti rimane su un piano immanente, perchè è qui che si deve
attestare la presenza di un prodigio, quasi all’ordine del giorno per i
medici delegati a dimostrarne la veridicità. E poichè spesso si tratta di
miracoli provvisori, dovuti agli alti e bassi della malattia, il dubbio
lacererà la giovane miracolata, da quando vedrà, in una delle scene più
sconvolgenti del film, una ragazza leucemica guarita ormai da giorni
ripiombare d’improvviso alla cieca catatonia della malattia.
La Hausner è abile nel raccontare
le geometrie di queste solitudini addolorate, devote, ferite
dall’ingiustizia divina che sceglie senza criterio apparente chi
salvare dalla morte e chi no. Sconvolti dall’invidia per i sani (come
gli inservienti del centro, che flirtano allegramente tra loro, senza curarsi
degli sguardi rabbiosi di chi è impossibilitato ad essere felice), delusi dal
presunto Dio che miracola chi non se lo merita, cercano risposte dal clero,
che risponde ai dubbi sull’iniquità divina col sordo fatalismo delle parabole.
Per quanto sia condotto in modo rispettoso ed equilibrato, sarebbe però
sbagliato pensare a Lourdes come
mero film-specchio delle proprie convinzioni, comoda mossa cerchiobottista
equidistante da fede e scetticismo che chiude gli occhi nel nome di una cieca
indecidibilità (e inimmaginabilità). Perchè le immagini e i personaggi
parlano chiaro, anche al di là dell’intentio auctoris (la Hausner ha negato di voler fare
dell’ironia su Lourdes), e la vena dissacrante che percorre sottopelle
il film si sfoga in molti momenti grotteschi e corrosivi, mostrati in modo
freddamente documentario dall’occhio clinico che li registra. Dal
premio Miglior Pellegrino per chi colleziona più buone azioni alla donna in
fila tra i malati terminali che cerca un miracolo per il suo eczema, dal
cameriere che serve acqua di Lourdes sino alla benedizione collettiva in cui
tutti i pellegrini a turno alzano la mano per farsi benedire e piangono
ritmicamente e meccanicamente, dalla cinica barzelletta sull(‘assenza
dell)a Madonna al sofferto ballo finale sulle note di “Felicità”
di Albano e Romina, sono molti i passaggi caustici, di un umorismo amaro, da
risata a denti stretti. Più che la ferocia anticlericale di Bunuel, le ellissi silenti e i quadri
fissi e ieratici della Hausner ricordano
piuttosto il pudore di Tati e Kaurismaki, mentre la capacità di far
rilucere situazioni e ambienti di decomposizione rimandano in minore
all’ “inferno visto da vicino” (Herzog dixit) del connazionale Ulrich Seidl, maestro di glaciale spietatezza. Riferimento ovvio
e dichiarato dalla giovane autrice è invece l’Ordet dreyeriano, il più celebre (e il più bello) precedente
filmico sul tema del miracolo, di cui la Hausner
sembra emulare le attente digradazioni luministiche, i movimenti di macchina
sempre misurati e la limpida armonia nella composizione del quadro. Di
bellezza minimalista e trattenuta, Lourdes
sa aprirsi inoltre a squarci visivi ipnotici e immersivi, come il tableau
notturno punteggiato dalle sole fiaccole dei pellegrini, o il quieto incipit,
una lentissima e interminabile carrellata visiva scandita dall’Ave Maria di Schubert, che ritornerà a metà film in verso contrario, come un inestricabile
palindromo visivo. E a un palindromo condannato alla circolarità assomiglierà
anche l’abbagliante finale, deflagrante punto di convergenza di tutte
le crepe emotive che venano il film, sublime apertura all’alea
interpretativa.
(23/10/09)