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LEBANON

REGIA: Samuel Maoz
SCENEGGIATURA: Samuel Maoz
CAST: Reymond Amsalem, Oshri Cohen, Yoav Donat
ANNO: 2009

A CURA DI ALESSANDRO TAVOLA

VENEZIA 09’: EMPTY METAL JACKET

Il fatto è che non ci fossero dei film veramente peggiori di altri: tolte le alzate di cresta di Muller (Romero e Tsukamoto) e le partecipazioni quasi dovute, tra i reali contendenti nessuno era all’altezza dell’Ang Lee capogiuria, e a vincere sono stati il sociale e l’attuale, seppur trasversali: Lebanon, Women without men, Soul Kitchen rispettivamente Leone d’Oro, d’Argento e Premio Speciale della Giuria. Medioriente (o quasi). Da torbidi rapporti di montagna ad angeli caduti dal ring, ecco: la guerra, denudata. E soprattutto un esordio. Troppo lucido e meccanico per poter essere amato, perfetto per gli amanti dello sbandieramento dei valori umani.
Contrapposto del Redacted di Brian De Palma, librare di soldati fantasma in un aldilà luccicante di pagine digitali, Lebanon confina i suoi all’interno di un cingolato per tutti i suoi novantadue minuti, oscurandoli, trascinandoli in semitotali blackout notte e giorno, senza mai dar loro respiro reale: follia dell’essere inghiottiti nell’insistenza, nella progressiva realtà sfatta di sudore e buio, negli unici lampi di luce provenienti dal mirino dell’organismo metallico di cui sono diventati anime senza risoluzione, nella voce di collegamenti radio che friggono sovrastati da(l ripetersi robotico e quasi ipnotico d)i rumori, dalle esplosioni, dalle grida.
Cinema sommozzatore, fuori e dentro, di quelli che prendono lo svirgolo intuitivo e lo esasperano fino all’insostenibile, all’affogamento, alla noia; che angustano gli spazi e le proprie possibilità, pressione che gioca quasi bieca, embolia narrativa inaspettata (dalla regia) e inevitabile: idea che si crede ideale, che sovrastando la forma si autoadombra, smarrendosi dopo il sublime schiaffo dei primi dieci minuti (che danno almeno la metà di tutto ciò che Hurtlocker di Kathyrin Bigelow sarebbe potuto essere), all’interno di un carro armato, arido e sporco e oscuro più per la narrazione, per la necessità, per l’invocazione di un controinferno già dal film predisposta, che per l’atmosfera proposta, che muta in esibizione, ripetizione, didascalia; perché che basti un campo di girasoli in testa e in coda al film per esprimere un’idiosincrasia è cosa da manuale di sceneggiatura, sempre insufficiente se in mezzo c’è fin troppo manuale di regia.
Malate tracce di Cloverfield, Diary of the dead e ancora di Redacted e di tutto quel vecchio e nuovo Cinema in prima persona, che ad un certo capriccio spettatoriale davano soddisfazione; condite di sana causa antibellica sia come motore che come lubrificante visivo, ch’altrimenti il piatto estremismo di Samuel Maoz sarebbe stato in difetto per qualsiasi giuria di senno, se non soporifero; invero quasi infetto e bloccato in una rinnegata videoludicità che cerca magnetismo nell’etica, nel’ipotetica sincerità, che quasi mai fa rima con capacità, di chi la guerra l’ha veramente fatta, cercando uno spicco cinematografico falsamente antimoderno, che scambia per superfluo ciò che invece è necessario.
I soldati sarebbero dovuti uscire da quel carro armato: se ne sentiva il bisogno per far sì che essi avessero un’autentica anima che per il film si compisse, di cui le catene non bastano ad esprimere l’esistenza. Ed invece è trionfante la (ri)petizione, quella con cui un’estremista della verità come Shinya Tsukamoto riesce a dare, anche se americanizzato, un frullato di suoni/corpi/(assenza di)colori/esplosioni mentali, che qui si perde, again, again, again, senza un mondo che vi sia su cui basare un inferno: la visione è mutilata, imbolsita, in cancrena, cercando le proprie fondamenta nell’inespresso, ma doveroso, pensiero comune, eccessivamente altrove, in una protesi mentale/metallica insufficiente.

Lebanon è come la realtà fotte la verità e il dubbio. E Ang Lee.

(20/09/09)

 

 

 

 

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