I FIGLI DEGLI UOMINI

REGIA: Alfonso Cuaròn
CAST: Clive Owen, Michael Caine, Julianne Moore
SCENEGGIATURA: Alfonso Cuaròn, Timothy Sexton, Hawk Ostby
ANNO: 2006


A cura di Pierre Hombrebueno

VENEZIA 06’: APPUNTI MENTALI SU CHILDREN OF MEN DI ALFONSO CUARON

“Quando si è risaputo che stavo per fare un film di fantascienza, agli studios si sono presentati in massa tutti i tecnici degli effetti speciali di Gran Bretagna e dintorni. Sono rimasti davvero molto male quando ho spiegato che il mio futuro era quello che vediamo tutti i giorni nei servizi della CNN” – Alfonso Cuaron

"Il futuro è una cosa del passato" recita il bellissimo tag che accompagna la locandina del film.
O ancora: “L’ultimo a morire spenga la luce”. La luce aka speranza, sogno, possibilità, evasione, destinata ad essere sepolta dall’ultimo fiato inalato. E’ la fine del mondo, apocalisse per favore.
Previsione noir per un’aspettativa utopica dell'inesistenza inconcettuale, un'apparente nichilismo d'approccio verso questa visione futuristica (ovviamente) riflessione del presente, e perchè no, del passato. E grande grandissimo Alfonso Cuaròn, che qui condensa ed amplifica la frenesia e il montaggio scattante e frammentatissimo di Y tu mamà tambien con l’estetica dark oscureggiante de Il Prigioniero di Azkaban, il suo precedente miracolo. Lucidissimo trasportatore del corpo spettatoriale in medias res nella trans-finzione che si fa tangibilmente realismo virtuale (non poi così) simulato nei meandri del puro adventure movie, scattante nella sintassi plottistica e incisivo per immagini e ultra-suoni tecnici. In questo alter-mondo che egli ci rappresenta inizialmente con la morte di Baby Diego, l'uomo più giovane rimasto sul pianeta, perchè le donne ormai non riescono più ad avere figli: siamo agli sgoccioli di un'apocalittica e visionaria alternativa new age, specchio di una preoccupazione risucchiata dall'epopea e dall’era della post-modernistica, tra queste masse di individui ormai privati di ogni certezza e sull’orlo di una depressione globale, sfiduciata nelle capacità ed intelligenza dell’essere umano, insetto destinato ad essere pestato dai propri errori accumulatosi nel corso dei tempi, parassita della mortalità che necessariamente deve soccombere all’inesistenza.
E subito, l'attentato terroristico, un'esplosione stordente che s'infischia come un eco fastidioso nelle orecchie del protagonista Clive Owen (e di conseguenza, nelle nostre), un eco lungo e quasi sinfonico, quella della morte e della distruzione che ti canta le sue fredde note con i brividi sul collo. Un po' ci sembra di essere tornati allo Strano Mondo di Bigelow, con la differenza che in Children of men l'atmosfera è ancora più tossica e soffocante, fastidiosa sensazione dermica di questo Cinema non solo di visioni, ma anche di odori, di vischiosa impurità, di schifo percettivo, espresso grazie alla fotografia ossessionante di Emmanuel Lubezki, guardacaso lo stesso mago delle luci di The New World (Malick) e Sleepy Hollow (Burton), e alla macchina da presa del Cuaròn, mai così tremolante e confusa per abbracciare la coerenza tra medium e (s)oggetto narrato. Come già lo Spielberg in La Guerra dei mondi (e il riferimento non è del tutto casuale), il mondo è in sgretolamento, e il Dio regista deve scendere sul campo di battaglia insieme ai suoi personaggi per trasformarsi esattamente in uno di loro: deve rotolare nel fango, fissarli senza voltare le spalle un minuto, come un micro-spia in carne ed ossa che immortala questo olocausto.

Children of men è una guerra alla sopravvivenza, all'armageddon di uomini che stavolta non devono lottare contro invasioni extra-terrestri o robot venuti dal futuro, ma semplicemente tra di loro, in un'isteria collettiva controllata dalla direzione di Cuaròn in procedimento climaxtico, un'amplificarsi di morti e di inseguimenti, di fughe, fino all'epilogo finale nella perfetta città dei dannati. Qui scendiamo proprio in territorio del war-movie, forse addirittura più incisivo del Soldato Ryan Spielberghiano (si, ancora lo Zio Steven): proiettili volanti e fugaci come fasci di luce/laser, la vita contro la morte, l'umanità contro la disumanità, dove il nemico siamo noi e sono tutti gl'altri. Pochissimi stacchi, e il virtuosismo della macchina da presa attraversa questa catartica confusione dove i lunghissimi piano-sequenza incontrano il cinèma veritè post-moderno: annullati quasi completamente i carrelli, qua non può esisterci l'occhio oggettivato di Dio, ma semplicemente di un uomo passante testimone reportagistico, instancabile e instaccabile Cuaròn nel viaggio più epidermico della sua carriera, nel film relativamente più virtuo-estetico. Pura goduria per gl'occhi. Senza finalità egoistiche ma pura simbiosi con la narrazione, magnifica complementarietà dell’ esperienza incandescente che si fa mistico e miticizzante, con quel finale quasi favolistica, la nascita (che diventa RI-nascita per tutta l’umanità) dell’ultima speranza (un nuovo Gesù Cristo?) verso la luce dell’ignoto. In verità sappiamo poco o niente di questi specchi narrativi, il puzzle è magnifico proprio per questi misteri che rimangono irrisolti fino alla fine, in primis il destino di questa umanità. Forse per saperlo ci basterà accendere la CNN tra qualche anno.

E alla fine, un momento di riflessione per riprendersi, con qualche senso di shock, di sperdutezza, di paura, ma anche e soprattutto d'ammirazione verso questo autore destinato in futuro a fare sempre più del Cinema qualcosa di grande e coinvolgente ogni sensorialità percettiva. Perché esattamente come la sua macchina da presa, i nostri occhi non sono riusciti a staccarsi per un secondo dalle potentissime immagini che scorrevano.
Una vetta per il post-moderno.

 

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(20/09/06)

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