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IL CATTIVO TENENTE: ULTIMA CHIAMATA NEW ORLEANS

REGIA: Werner Herzog
SCENEGGIATURA: William Finkelstein
CAST: Nicolas Cage, Eva Mendes, Val Kilmer
ANNO: 2009

 

A CURA DI DARIO STEFANONI


VENEZIA 09’: SPARAGLI ANCORA. LA SUA ANIMA STA ANCORA BALLANDO

Tra le insospettabili anomalie dell’ultima Mostra veneziana, Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans ha rappresentato un vero e proprio punto di non ritorno, sublime ossimoro herzoghiano che aspira ad essere tutto e il suo contrario: remake gioiosamente fasullo, noir amputato delle sue componenti essenziali, 'film su commissione' tra i più liberi e personali di cui il cinema recente serbi memoria.
Già assurdo nelle sue premesse produttive (1), Il Cattivo Tenente di Herzog è non solo l'eccentrico ritorno alla fiction di un autore che si credeva ormai devoto al solo documentarismo (con le invisibili eccezioni di Invincible e Rescue Dawn), ma anche il liberatorio coming out autoriale grazie a cui il cineasta bavarese mette finalmente in scena (l'immaginario de)gli Stati Uniti, dove vive già da diversi anni. Non pago, vi accoppia un secondo film 'americano' in concorso, My son, my son what have ye done, persino più schizzato e scorretto, sebbene non altrettanto riuscito, dell'eretico remake.
Innanzitutto, è bene chiarire che i legami tra Il Cattivo Tenente di Ferrara e Ultima Chiamata New Orleans sono flebilissimi, se non nulli. E considerata l'inappuntabilità dell'originale, una delle più alte espressioni del neonoir anni '90, il tradimento totale suona come un merito: anziché ossequiare servilmente o deturpare l'originale in un ricalco minore, si opta invece per un altra storia e un altro milieu, dando così vita ad un film sideralmente estraneo, sorprendente e significativo proprio in virtù di questo stesso scarto - narrativo, stilistico, morale.
Se Il Cattivo Tenente era tragico e claustrofobico, Ultima Chiamata New Orleans è stralunato e leggero. Se il primo aveva un'anima cupa e notturna, il secondo è (auto)ironico e luminoso. Lo stesso tenente Cage si è decisamente rabbonito rispetto a quello disperato e animalesco interpretato originariamente da Keitel. Inoltre, laddove il capolavoro di Ferrara si proponeva quale sofferta parabola sul senso di colpa e sul perdono, il falso remake di Herzog se ne frega di ogni questione etica e religiosa e sostituisce ai rovelli metafisici uno humour beffardo e tutto immanente (Herzog: “C'è solo la gioia del male, che non ha nulla a che fare con la cristianità.”).
Ludico e cerebrale, il nuovo Cattivo Tenente è interessato piuttosto a mostrare gli scompensi fisici e le visioni burroughsiane del tenente tossicomane Cage, come le surreali incursioni di iguane e di alligatori riprese da una videocamerina ravvicinata, ufo visivi di punti di vista impossibili. Elogio sregolato della libertà di sguardo e di costruzione narrativa, non privo di uno humour nervoso e livido, Ultima Chiamata New Orleans si sviluppa secondo uno sfrenato affastellarsi di gag, prospettive inconsuete, dialoghi nonsense, improbabili e incoerenti happy endings capaci di rivoltare tutto, come a dire che nell'epoca della fine delle storie e della schizofrenia postmoderna tutte le strade possano essere vere allo stesso modo e che niente, in fondo, sia irreversibile. Se si può parlare di noir è per puro caso, lo stesso caso che pare dominare il racconto a partire dall'atto di eroismo iniziale, completamente immotivato e compiuto più per sorda inerzia che per sincero altruismo.
Come noir si direbbe sgangherato e parodico, privo dei tòpoi indispensabili a qualsiasi crime-story che si rispetti: latitano sparatorie e regolamenti di conti, mentre le vere scene-madri del film descrivono interrogatori deliranti (le spassose minacce alla nonna del testimone) e allucinazioni estrose (l'anima ballerina che sopravvive al cadavere), momenti indubbiamente poco apparentabili al genere quale comunemente inteso.
Eppure, come ha dimostrato negli ultimi decenni anche Lynch, questa stessa indecidibilità logica, tra sonno e veglia, allucinazione e realtà, non è già condizione sufficiente per dirsi noir? Senza direzione, senza necessità, personaggi e vicende vanno allo sbando, in stato di semi-coscienza, sfiorando persino l'ebbrezza meta (quando Cage chiede del ragazzo testimone, questo appare immediatamente dalla finestra, come un personaggio appena richiamato all'ordine dai doveri drammaturgici e costretto a una sbrigativa e improbabile entrata in scena), forse nemmeno così lontani dalla vertigine di nulla di Death Proof. Lucido e nascostamente radicale, osa persino più dell'originale di Ferrara quando riveste di onorificenze il suo cattivo tenente, a dispetto della condotta criminale e a dimostrazione dell'incrollabile capacità di autoassoluzione dell'ordine poliziesco. Tra le sorprese meno prevedibili, Nicholas Cage, sperduto e dolorante, offre uno dei ruoli più memorabili della sua carriera, vicino all'espressività comico-tormentata già vista e apprezzata in Arizona Junior e Adaptation.
Sregolato, beckettiano, libero détournement di un film mai visto da chi lo (ri)filma, Ultima Chiamata New Orleans è uno dei migliori noir possibili per questi nostri tempi ipocondriaci.

(1) Sembrerà una barzelletta da circuito exploitation, ma la scelta di girare a New Orleans è stata decisa dai produttori per approfittare dei grossi incentivi fiscali offerti dal governatore della Louisiana a chi volesse girare nella città del dopo-Katrina. Un aneddoto che non stona affatto con il cotè paradossale e dadaista di tutto il film.

 

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